Franco Gelli fra pittura, poesia visiva, copy art, mail art, ricerca avanzata per un percorso di ibridazione teorico-concettuale a nutrimento dell’assetto artistico. Aderì al Movimento di Arte Genetica (GHEN – fondato da Francesco Saverio Dòdaro nel 1976) e fu il “numero due” del movimento. Ha realizzato, fra le varie opere, “Il manifesto della follia, 1980-1984″, “Ipotesi genetica di città, 1984″, “Mare Piccolo”, “EXVOTO PER Carmelo Bene (in)adempiendo LACAN”, “Implicazione struttura ambiente, 1966″, portando a compimento importanti opere imbevute, anche, dell’assetto sociale, dello spazio attorno, inquadrando, in uno sviluppo artistico sempre avanzato, temi difficili come quello dell’immigrazione.
C’è una poetica che è nel processo, nel mancamento, nella distanza storica dei processi evolutivi della propria persona e della persona d’altri, dell’azione ch’è esterna s’ascolta e s’accorda nel sentire e nella pratica realizzativa. È il concetto del processo che sedimenta l’opera, ne descrive le traiettorie e le strutture in entrata, l’artista stesso, che emerge e sfocia in risultati, di volta in volta diversi, che sono propri delle tematiche trattate in corso d’opera e le riscopre come corpi-arti dello stesso volto, perché descritte in una pratica realizzativa caratterizzata da quel criterio di identificabilità “genetico” che è nell’esperienza del vivere quotidiano, e si genera dal profondo dell’artista.
Intraprendere un discorso a partire dall’opera poetico-visiva di Franco Gelli significa destinarlo, il discorso, all’elaborazione teorica di una delle poetiche più avanzate negli ambiti della ricerca artistico-letteraria degli ultimi trent’anni, sepolta, come spesso accade, da un ingiusto velo di polvere che, oggi, si propone come lembo di terra che nasconde e sul quale si è andati edificando castelli di specchi smisurati, privi di ogni cognizione di quanto accaduto nel recente passato. Fra installazioni, testi teorici, poetico-narrativi, iniziative volte al recupero (si vedrà, più avanti, l’operazione condotta da Gelli nel tentativo di un recupero, profondo, sincero, dell’opera poetica di Vittorio Bodini) si snoda l’esperienza più avanzata che la proposta di Gelli ha saputo strutturare nel corso degli anni.
L’opera di Gelli, nei moduli M27 – M28 del primo numero del Quotidiano dei Poeti, pubblicato nel marzo 1989 – voluto da Antonio Leonardo Verri e strutturato, nella sua prima esperienza, nel respiro della modularità dattilo A4 pensata e voluta da Francesco Saverio Dòdaro – intitolata “Omaggio a Mlyanàrcik”, tende l’esperienza poetica dell’autore nel bilico di un sentire incagliato fra il passato e la contemporaneità di uno sguardo che si staglia fra la Venere del Tiziano e gli scorci di Venezia, i disagi urbani, metropolitani, di una città in espansione, che non è dato sapere quale perché è negli umori che incarna che si situa la sua condizione di crescita e trascende Venezia, ma che esiste e si agita alle spalle della tranquillità maliziosa del Tiziano, assorbendola, dilaniandola nello scalpitare tumultuoso della crescita della modernità, ansiosa, smaniosa di esserci e di assorbire la lentezza armonica dello sguardo pittorico della Venere incantata, ma che già sente lo scalpitare del tempo in quei sobborghi che, già post-urbani, ne assediano l’armonia.
Facendo alcuni passi indietro nell’ambito della ricerca svolta da Gelli, è necessario un breve itinerario in quello che è stato il Movimento di Arte Genetica, fondato da Francesco Saverio Dòdaro nel 1976, e del quale Gelli è stato il “numero due”, come testimoniato dal timbro che apponeva sulle sue opere che riportava la dicitura di “Genetico Numero 2”. Col Movimento di Arte Genetica, Dòdaro rintraccia l’origine del linguaggio nella mancanza a essere individuata da Lacan per la separazione del soggetto dal complemento materno, in quel trauma del linguaggio, verso quello sviluppo della realtà psichica dove, all’interno dell’analisi lacaniana, è possibile riscontrare, oltre all’esperienza traumatica della separazione all’atto della nascita, che il bambino cercherà di colmare attraverso la pulsione che, incontrando i limiti del corpo, sfocerà nelle zone erogene, proseguendo con la fase dello specchio e l’alienazione del soggetto nell’io immaginario, fittizio, fino alla terza fase in cui la presenza del padre che separa il bambino dalla madre pone il bambino stesso nell’ordine simbolico del linguaggio, che lo indirizza alla vita “propriamente umana”. All’interno della teoria genetica Dòdaro considererà il linguaggio come una congiunzione volta al ricomporre la dualità dell’anima, rintracciando, inoltre, la musicalità insita in ogni linguaggio umano nell’archetipo del battito del cuore ascoltato in età fetale nel grembo della madre. A partire da ciò, Gelli, genetico numero due, avvierà un percorso di ricerca che lui stesso denominerà di poesia neo-genetica nell’intervento teorico che accompagnerà l’installazione poietica “Stazione Genetica. Manichino: Macchina abitabile postindustriale” e che sarà, poi, pubblicato nel numero di Ghen Res Extensa Ligu del giugno 1984. Attraverso l’opera in questione, e il relativo testo teorico, di fatto Gelli parla, come già detto, di “esperienza neo-genetica non più fondata sulla memoria del suono, poiché lo sguardo mirato altrove ne fa memoria di luce”. “Stazione genetica” è un’opera/installazione ai margini tribali di un bosco condizionato dalla chirurgia sociale di relitti postmoderni; un’auto, un manichino. Nel nome è l’intercambiabilità, la simbiosi dei ruoli di questi due strumenti accostabili al duale. Nel titolo, il manichino è letteralmente definito “macchina postindustriale abitabile”, richiamando all’automobile come spazio abitativo postindustriale, ma, allo stesso tempo, siamo nell’ottica di un manichino vuoto che di fatto fonda l’abitabilità del nulla tecnologico contemporaneo ed apre alla dualità dell’abitare, della simbiosi, della comunione, di un contesto di comunicazione tecnicamente alienato che ricerca le sue radici duali.
“In primavera non vedo”, opera ispirata ai quaderni di Franca Camillò, pubblicata sul numero di dicembre 1982 di Ghen Res Extensa Ligu, un tondo, un cerchio, riflesso di remote mancanze, nero, nero come la pece, come il mare di notte quando ogni centimetro di profondità è un fondo abissale, uno scuro ritmo maternale; una bambina, una foto, la luce sullo sfondo, bianca accecante, un muro bianco e il nero che ricopre la bambina, la sua sagoma lontana come il fondo scuro del cerchio, profonda come il mare; vicina nel tempo, ma ubriaca di lontananze originarie.
L’iniziativa “Cercare Bodini”, accennata in apertura, pubblicata nel febbraio 1983 sul Pensionante dei Saraceni, è identificabile come una imponente operazione poetica autogestita, accostabile al circuito della mail art, “indicativa di scelte funzionali rispondenti in arte a meccanismi aggreganti instaurati per contatto” (Gelli, F., in “Pensionante dei Saraceni”). Il segnale linguistico, quindi simbolico, rintracciabile nella poetica di Vittorio Bodini, parte da labbra che sono antenne delle lontananze, perché la pulsione, la libido che incontra i limiti del corpo per convogliarsi sulle zone erogene freudiane, ricerca il contatto, causa mancanze ad essere, propriamente umane di Altro che ci dona la parola, ci apre al simbolico e si confonde nella ricerca poietica di una produzione artistica del reale, indistinto dal sogno che non è irreale, ma produzione e costruzione della vita che nel contatto si realizza. Il seme linguistico della poesia, in questo caso filtrato attraverso il segnale “Bodini”, è la concezione dell’arte come rete, all’interno della quale, nel caso della proposta di Gelli, convergeranno, fra gli altri, Achille Cavellini, Francesco Spada, Luciano Caruso, Lamberto Pignotti, Francesco Saverio Dòdaro, Vittorio Balsebre, Mirella Bentivoglio, Toti Carpentieri, Lucio Giannone, Gino Gini, Gruppo Gramma, Sandro Greco, Armida Marasco, Elio Marchegiani, Armando Marocco, Antonio Massari, Eugenio Miccini, Enzo Miglietta, Fernando Miglietta, Rolando Mignani, Alex Mlynàrcik, Vanna Nicolotti, Atonio Noia, Ico Parisi, Ilderosa Petrucci, Pierre Restany, Romano Sambati, Vittorio Tolu, Donato Valli, Carlo Alberto Augieri e altri ancora.
“È pur nostro il disfarsi delle sere” è un verso autografo di Carmelo Bene sul retro di un dipinto di Gelli che, l’autore neo-genetico, ripropone nella pubblicazione sul Pensionante dei Saraceni del testo teorico e delle foto della sua installazione intitolata “(In)adempiendo Lacan” che mescola la lacaniana fase dello specchio all’apparire nell’esserci-non esserci di Carmelo Bene che, nell’installazione, appare alla madonna, riflessa nello specchio, che rivive la fase dello specchio per il riconoscimento e la strutturazione fittizia di sé, in un capovolgimento che vede Carmelo Bene sospeso, aprirsi al volo, aggrovigliato al suono che nell’aria si propaga attraverso le note di un violino. Scrive Gelli che “Il suono del verso è chiave, conseguenza delle conseguenze (causa di Teatro) (causa di Poesia) per chi parte dal sud del sud dove la memoria non ha limiti (lontananze genetiche)”.
“Amo Venezia”, sulla copertina de “I trofei della città di Guisnes”, romanzo di Antonio L. Verri pubblicato nella collana Il Quadrato – all’epoca diretta da Antonio Errico – per Il Laboratorio di Aldo D’Antico nel mese di dicembre 1988, è una risonanza, una radiografia, un cercare che è nuotare in un mare amniotico che accarezza il ventre della città, il passo del bambino, l’amore originario.
L’opera di Gelli, nei moduli M27 – M28 del primo numero del Quotidiano dei Poeti, pubblicato nel marzo 1989 – voluto da Antonio Leonardo Verri e strutturato, nella sua prima esperienza, nel respiro della modularità dattilo A4 pensata e voluta da Francesco Saverio Dòdaro – intitolata “Omaggio a Mlyanàrcik”, tende l’esperienza poetica dell’autore nel bilico di un sentire incagliato fra il passato e la contemporaneità di uno sguardo che si staglia fra la Venere del Tiziano e gli scorci di Venezia, i disagi urbani, metropolitani, di una città in espansione, che non è dato sapere quale perché è negli umori che incarna che si situa la sua condizione di crescita e trascende Venezia, ma che esiste e si agita alle spalle della tranquillità maliziosa del Tiziano, assorbendola, dilaniandola nello scalpitare tumultuoso della crescita della modernità, ansiosa, smaniosa di esserci e di assorbire la lentezza armonica dello sguardo pittorico della Venere incantata, ma che già sente lo scalpitare del tempo in quei sobborghi che, già post-urbani, ne assediano l’armonia.
Facendo alcuni passi indietro nell’ambito della ricerca svolta da Gelli, è necessario un breve itinerario in quello che è stato il Movimento di Arte Genetica, fondato da Francesco Saverio Dòdaro nel 1976, e del quale Gelli è stato il “numero due”, come testimoniato dal timbro che apponeva sulle sue opere che riportava la dicitura di “Genetico Numero 2”. Col Movimento di Arte Genetica, Dòdaro rintraccia l’origine del linguaggio nella mancanza a essere individuata da Lacan per la separazione del soggetto dal complemento materno, in quel trauma del linguaggio, verso quello sviluppo della realtà psichica dove, all’interno dell’analisi lacaniana, è possibile riscontrare, oltre all’esperienza traumatica della separazione all’atto della nascita, che il bambino cercherà di colmare attraverso la pulsione che, incontrando i limiti del corpo, sfocerà nelle zone erogene, proseguendo con la fase dello specchio e l’alienazione del soggetto nell’io immaginario, fittizio, fino alla terza fase in cui la presenza del padre che separa il bambino dalla madre pone il bambino stesso nell’ordine simbolico del linguaggio, che lo indirizza alla vita “propriamente umana”. All’interno della teoria genetica Dòdaro considererà il linguaggio come una congiunzione volta al ricomporre la dualità dell’anima, rintracciando, inoltre, la musicalità insita in ogni linguaggio umano nell’archetipo del battito del cuore ascoltato in età fetale nel grembo della madre. A partire da ciò, Gelli, genetico numero due, avvierà un percorso di ricerca che lui stesso denominerà di poesia neo-genetica nell’intervento teorico che accompagnerà l’installazione poietica “Stazione Genetica. Manichino: Macchina abitabile postindustriale” e che sarà, poi, pubblicato nel numero di Ghen Res Extensa Ligu del giugno 1984. Attraverso l’opera in questione, e il relativo testo teorico, di fatto Gelli parla, come già detto, di “esperienza neo-genetica non più fondata sulla memoria del suono, poiché lo sguardo mirato altrove ne fa memoria di luce”. “Stazione genetica” è un’opera/installazione ai margini tribali di un bosco condizionato dalla chirurgia sociale di relitti postmoderni; un’auto, un manichino. Nel nome è l’intercambiabilità, la simbiosi dei ruoli di questi due strumenti accostabili al duale. Nel titolo, il manichino è letteralmente definito “macchina postindustriale abitabile”, richiamando all’automobile come spazio abitativo postindustriale, ma, allo stesso tempo, siamo nell’ottica di un manichino vuoto che di fatto fonda l’abitabilità del nulla tecnologico contemporaneo ed apre alla dualità dell’abitare, della simbiosi, della comunione, di un contesto di comunicazione tecnicamente alienato che ricerca le sue radici duali.
“In primavera non vedo”, opera ispirata ai quaderni di Franca Camillò, pubblicata sul numero di dicembre 1982 di Ghen Res Extensa Ligu, un tondo, un cerchio, riflesso di remote mancanze, nero, nero come la pece, come il mare di notte quando ogni centimetro di profondità è un fondo abissale, uno scuro ritmo maternale; una bambina, una foto, la luce sullo sfondo, bianca accecante, un muro bianco e il nero che ricopre la bambina, la sua sagoma lontana come il fondo scuro del cerchio, profonda come il mare; vicina nel tempo, ma ubriaca di lontananze originarie.
L’iniziativa “Cercare Bodini”, accennata in apertura, pubblicata nel febbraio 1983 sul Pensionante dei Saraceni, è identificabile come una imponente operazione poetica autogestita, accostabile al circuito della mail art, “indicativa di scelte funzionali rispondenti in arte a meccanismi aggreganti instaurati per contatto” (Gelli, F., in “Pensionante dei Saraceni”). Il segnale linguistico, quindi simbolico, rintracciabile nella poetica di Vittorio Bodini, parte da labbra che sono antenne delle lontananze, perché la pulsione, la libido che incontra i limiti del corpo per convogliarsi sulle zone erogene freudiane, ricerca il contatto, causa mancanze ad essere, propriamente umane di Altro che ci dona la parola, ci apre al simbolico e si confonde nella ricerca poietica di una produzione artistica del reale, indistinto dal sogno che non è irreale, ma produzione e costruzione della vita che nel contatto si realizza. Il seme linguistico della poesia, in questo caso filtrato attraverso il segnale “Bodini”, è la concezione dell’arte come rete, all’interno della quale, nel caso della proposta di Gelli, convergeranno, fra gli altri, Achille Cavellini, Francesco Spada, Luciano Caruso, Lamberto Pignotti, Francesco Saverio Dòdaro, Vittorio Balsebre, Mirella Bentivoglio, Toti Carpentieri, Lucio Giannone, Gino Gini, Gruppo Gramma, Sandro Greco, Armida Marasco, Elio Marchegiani, Armando Marocco, Antonio Massari, Eugenio Miccini, Enzo Miglietta, Fernando Miglietta, Rolando Mignani, Alex Mlynàrcik, Vanna Nicolotti, Atonio Noia, Ico Parisi, Ilderosa Petrucci, Pierre Restany, Romano Sambati, Vittorio Tolu, Donato Valli, Carlo Alberto Augieri e altri ancora.
“È pur nostro il disfarsi delle sere” è un verso autografo di Carmelo Bene sul retro di un dipinto di Gelli che, l’autore neo-genetico, ripropone nella pubblicazione sul Pensionante dei Saraceni del testo teorico e delle foto della sua installazione intitolata “(In)adempiendo Lacan” che mescola la lacaniana fase dello specchio all’apparire nell’esserci-non esserci di Carmelo Bene che, nell’installazione, appare alla madonna, riflessa nello specchio, che rivive la fase dello specchio per il riconoscimento e la strutturazione fittizia di sé, in un capovolgimento che vede Carmelo Bene sospeso, aprirsi al volo, aggrovigliato al suono che nell’aria si propaga attraverso le note di un violino. Scrive Gelli che “Il suono del verso è chiave, conseguenza delle conseguenze (causa di Teatro) (causa di Poesia) per chi parte dal sud del sud dove la memoria non ha limiti (lontananze genetiche)”.
“Amo Venezia”, sulla copertina de “I trofei della città di Guisnes”, romanzo di Antonio L. Verri pubblicato nella collana Il Quadrato – all’epoca diretta da Antonio Errico – per Il Laboratorio di Aldo D’Antico nel mese di dicembre 1988, è una risonanza, una radiografia, un cercare che è nuotare in un mare amniotico che accarezza il ventre della città, il passo del bambino, l’amore originario.
Francesco Aprile
2012-07-23
Da Il Paese Nuovo
2012-07-23
Da Il Paese Nuovo
Nessun commento:
Posta un commento