Il Nobilissimo Signore è un
refrain nell’Esiliato dei Pazzi, ultimo romanzo di Antonio Errico, ultimo
abbandono verso approdi sconosciuti che sanno farsi ascoltare, incontrare e
raccontare. Il Nobilissimo Signore è un refrain che accompagna lo scorrimento veloce
delle parole, la loro andatura sempre regolata da periodi brevi, incisivi,
disarcionati dalla memoria di un romanzo che lo si vuole, o lo si dice,
storico, ma che è proiezione delle intimità recondite dell’uomo e del suo porsi
alla vita; e per questo è una narrazione che si articola sulla condizione
dell’esistenza, il suo andamento, un primato di questa sul pensiero che è
sempre nel bilico fra ragione e passione, e mai nel rivolo totalizzante delle
condizioni dogmatiche che appestano l’uomo nel mantello sociale. Scrive Antonio
Errico che «non esiste
parola metafora immagine simbolo figura che possa dire Dio», ma c’è una
persistenza, nel romanzo, che tiene unite le parole e gli scorci improvvisi di
buio o luce, che tiene insieme le trame del tempo e dell’oggi, e che in questa
persistenza riproduce la dimensione della percezione quasi archetipica, ma
slegata dall’uso simbolico della rappresentazione di forme di natura o vita, ma
che implicita a natura e vita viene fuori come eruzione dalla costruzione del
periodo, del narrato, dello scavo nel conoscersi e del riconoscersi in Altro,
per aprire le porte dimenticate di sé. Perché Antonio Errico non racconta la
vicenda dei Pazzi e dei Medici nella Firenze della seconda metà del 1400,
racconta il pittore Niceforo che cerca di catturare la luce e l’indicibile,
racconta il Fabbricante di Antonio Verri che si mescola nella storia e dalla
storia è rapito. C’è un ritorno di figure che sono indistinte, c’è Antonio
Errico e c’è Antonio Verri che è Galateo che incontra l’esiliato e
nell’esiliato, tutti, si raccontano. La luce è dimensione preziosa in un
pensiero meridiano che abbraccia il sentimento morale dell’umanità di Rousseau
e la stretta di mano solare di Albert Camus, e si confonde senza intermezzi nella
notte che improvvisa sovviene, nel buio che capovolge e porta altra luce,
diversa, di altri incontri stellari che stellati impogono attenzione al lettore
e non guardano mai al filo della narrazione, ma al perdersi in questa come tra
la dimensione frastagliata delle coste di quell’Europa di Goethe che solo nel
mare ha in sé l’apertura, di questa
sotria che è essere nell’altro, mai veramente svelato perché non sembra essere
un singolo uomo, ma Altro come dimensione di umanità cercata e vissuta. Il
Nobilissimo Signore è quel refrain, quel filo della narrazione che per questo
torna, si abbatte e sempre ritorna, come un’onda che frusta lo scoglio e sempre
torna nel suo confondersi ancestrale con altre onde che dopo di lei, su di lei
arrivano e mischiano come essenze trasfigurate dalla luce, nell’indeterminato narrato
di personaggi che, tutti, nell’esiliato hanno voce e cuore.
Francesco Aprile
2012-07-06
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