«Stabilità, il tuo nome è dramma» (C. B.)
«V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento» scriveva Carmelo Bene in apertura di “Sono apparso alla madonna”, e questo è un punto assente in cui smorza il pensiero, s’innesta la sua conclusione nell’essenzialità di questo istante che la richiede, di un istante di dieci anni fa come attualizzazione di una condizione pregressa alla forma-corpo dell’uomo stesso. Su posizioni lacaniane il linguaggio beniano è struttura, modulata sulle frequenze inconsce, l’incoscio-linguaggio, di un tentativo che riconduce il linguaggio all’essenzialità di un tempo andato, ma attualizzato nell’aiòn deleuziano, nell’azione teatrale che rivolta la condizione stessa dell’uomo, estesa ai limiti mcluhaniani di un divenire linguaggio universale.
È nella condizione musicale del linguaggio, nell’estasi sonora della poiesi archetipa, che la manipolazione beniana si articola, in quell’evento incorporeo dell’attimo, dell’istante-tempo dell’aiòn deleuziano che, diverso dal kronos, è patente nell’incorporeità dell’istante, e in questo contesto s’innesta nella sua stessa mancanza, pregressa all’uomo, al corpo, già allacciata nel tempo kronos che nel divenire è in sfacelo, in disgregazione, verso le coordinate della sua assenza, poi nascita-assenza nella mancanza lacaniana e ancora divenire che è già assenza di quel tempo kronos che in Deleuze muore nel movimento stesso del suo compiersi. L’azione teatrale di Carmelo Bene si articola in un tempo per il quale, l’attore, è debitore di Gilles Deleuze che nell’aiòn, l’istante, riscontra lo spartiacque della condizione passata e quella futura come uniche a sopravvivere nel divenire. Nell’immagine dialettica di Walter Benjamin passato e presente si incontrano nella costellazione dell’istante e generano il futuro. Nella condizione dell’azione teatrale beniana l’istante è punto di rottura, evenemenziale, illimitato di ciò che appartiene alle cose senza “cominciamento”, distinto dal kronos deleuziano (infinito ma limitato) considerato come limite perché tempo che passa continuamente in quella sua durata infinita; si dispiega, l’istante, nell’incorporeità della condizione dell’estasi sonora, illimitato in quel non essere misurabile, finito nell’essere già passato, in quell’assenza del non avere cominciamento e protrarsi in una durata inesauribile, quasi archetipica, ch’è propria dell’esserci sempre. L’istante beniano è un tappeto sonoro che disloca il linguaggio nella sua manipolazione tecnica del significante, amplificando il corpo attraverso una mediazione mcluhaniana, una condizione di estensione organica dell’uomo attraverso la tecnica dei media, spostando il campo d’azione del linguaggio nel regno “universale” della comunicazione elettronica-immediata sulla scia di quanto immaginato da Mcluhan. L’estasi sonora del teatro-istante, dell’assenza-aiòn, di Carmelo Bene è filtrato dall’esperienza dell’Ulisse e del Finnegans Wake di James Joyce, della lettura sonora della presenza-assenza della parola, del non essere il soggetto parlante, vuotando la condizione di parlessere, ritmandosi nell’essenza della poiesi, nella presenza del ritmo archetipo, della musica alla quale soggiace l’esperienza teatrale come tessuto di istanti, come una grandinata eseniana, non di temporale, ma di eruttanti significanti. La volontà di potenza come disfacimento del soggetto, in quella messa in continua discussione di ambito valoriale che è insita nel divenire, si allaccia nel teatro dell’istante al tempo che muore nel suo stesso divenire, nell’essere/(non-essere) istante finito e già passato e mai cominciato in una terra, Otranto, delle storie dimenticate.
Francesco Aprile
2012-03-11
Da Il Paese Nuovo, 2012-03-13
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