domenica 17 giugno 2012

Non sono pazzo. Ricognizioni poetiche sulla figura di Renato Leopizzi

_Non sono pazzo
                            _Ho solo paura degli uomini che altri uomini uccidono.



di Francesco Aprile
 
Per non cedere [
            [nelle accomodanti sperlunghe di tempo
scesero per me. con me a forza_
inesplicabili torsioni di scalini e porte e stanze. sviluppate nelle chiuse dantesche dell’inferno.
scesero per me. con me a forza.
per non lasciarmi sveglio alla vita_
spinsero in coma il mio corpo|
senza colpo ferire sulle mie idee.
spinsero. spinsero ancora in coma il mio corpo|
spinsero[
              e niente ferirono delle idee.
spinse-
           -ro. nei digiuni grigi della solitudine. la mia anima.
ma la mia solitudine. è quella di molti. e tutti. e conosciuti e sconosciuti uomini. ma la mia solitudine. è quella di tutti. di quattro mura bianche che mi chiudono gli occhi. di quattro. quattro mura bianche che mi fissano in un perimetro di urla e silenzi. e mi tolgono il cielo dagli occhi. ma la mia solitudine è quella di tutti. è nella deprivazione umana che s’accaniscono. è nella nostalgia delle mura bianche che mi opprimono e sopprimono. e nella latenza del vivere_ mi seppelliscono.
Mi uccisero due volte.
quando alla notte a forza mi portarono.
quando alla notte a forza mi tacitarono.
Mi uccisero tre volte.
quando in quella stanza per anni mi cacciarono e finsero la mia finta morte.
E quante. Quattro volte ancora mi uccisero.
quando nulla seppi della morte del regime che a forza mi aveva rinchiuso.
E quante. Cinque volte ancora mi uccisero.
quando morire mi toccò davvero. dopo 30 anni di morte nuda. in quattro mura bianche e nostalgie accusanti incastrate negli occhi. ora chiusi. imbrattati dalla cattiveria bruta di un regime senza libertà d’essere uomini.
E quante. Quante volte ancora il corpo mi hanno cacciato. E quante. Quante ancora lo cacceranno anche ora che non c’è più. anche ora. ora. e ora che gira il vento e soffia sulle mie parole. e ora. ora che il tempo s’alza come un sipario a scoprire e scoperchiare e smontare. le nostalgie stanche di quattro mura e cieli bianchi cancri chiusi in queste stanze. ho attraversato incerti spazi di tempo. ho attraversato il dolore. la pazzia dei tiranni. la ferocia. il bello e il cattivo tempo. e ora che ho attraversato stanze smunte di ricordi. e ora. ora. ora che ho attraversato i silenzi e non ho mai saputo che la resistenza non è stata vana. e non ho mai potuto raccontare ai nuovi arrivati che è poesia la resistenza e resistenza è la poesia e il grido. che fra le quattro mura ancora rimbalza. è la chiusa della mia vita spezzata.

giovedì 14 giugno 2012

Elio Coriano, versi per la memoria: una performance per le tabacchine

Mercoledì 13 giugno 2012 il poeta Elio Coriano, accompagnato dai suoni de Le Anime Bianche, ricordava, coi suoi versi, le tabacchine morte bruciate in fabbrica a Calimera (Le) il 13 giugno del 1960.
 
 
 
Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, III LEGISLATURA - DISCUSSIONI - SEDUTA POMERIDIANA DEL 14 GIUGNO 1960, da http://legislature.camera.it
 
«Proprio ieri a Calimera, in provincia di Lecce, sono morte arse vive quattro operaie tabacchine in un magazzino. Se ella dà uno sguardo alla grande stampa, ai giornali quotidiani vede come il fatto viene riferito e con molti dettagli. Oltre a queste povere donne bruciate vive vi sono state altre cinque operaie ricoverate in ospedale insieme con due uomini per ustioni gravi e per intossicazioni da solfuro di carbonio. Ella mi potrà osservare: e che cosa c'entra il concessionario? Onorevole ministro, si faccia un giro nella provincia di Lecce per constatare come sono attrezzati i magazzini di tabacco. Inoltre (e questa è la cosa più grave) tutti ammettono che causa della sciagura è stata la inosservanza delle leggi da parte della ditta concessionaria. Perché è risaputo che tassative disposizioni affidano a squadre di specializzati muniti di speciale licenza, riguardanti l'impiego di gas tossici, la disinfestazione dei depositi di tabacco. La mattina del 13 giugno nei locali della ditta Villani e Franzo, dove si faceva evaporare il solfuro di carbonio per proteggere dalle tarme il tabacco ivi depositato, non si doveva neanche permettere la presenza di estranei oltre gli autorizzati. Neanche a titolo di curiosità. Invece la Villani e Franzo, come fanno del resto tutti, aveva assunto nove tabacchine perché le pagava solo 700 lire al giorno. Per risparmiare in sostanza qualche cosa come dieci mila lire. E tutto ciò sotto gli occhi dei funzionari del monopolio, mentre l'ispettorato del lavoro finge di non sapere. [...] Onorevole ministro, se vi fosse stata una sola uscita di sicurezza le operaie della ditta Franzo e Villani di Calimera si sarebbero certamente salvate». 
 

Elio Coriano, una performance per le tabacchine
 
La sera del 13 giugno 2012, Elio Coriano, accompagnato dai suoni de “Le anime bianche”, rendeva omaggio alla memoria; coi suoi versi, infatti, ricordava che conoscenza è consapevolezza, che crea quella coscienza che in quanto cittadini e uomini ci rende autori, protagonisti attivi della nostra esistenza e non solo attori passivi nello spazio sociale di un sistema repressivo che ci controlla, usa e consuma. I versi di Elio Coriano hanno ripercorso le ore di dolore strette tra «mani di fumo» di un 13 giugno diverso, di un 13 giugno del 1960, quando a Calimera alcune tabacchine bruciarono durante il lavoro. È l’occasione per intraprendere, in versi, tutto un percorso che molte volte si lascia cadere nel vuoto, dopo le urla dello scandalo immediatamente seguente alle morti bianche, è l’occasione per ribadire che è necessario apprendere, dai libri come dalla vita, dalle situazioni sconnesse che si presentano davanti agli occhi e agli occhi chiedono spazio, quello necessario per l’assimilazione, per la crescita, per il giusto respiro che nel corpo si modella quando è tempo d’aprire orizzonti e concepirne di nuovi, per non piegarsi a quelli ormai saturi di una società che svaluta l’uomo, sminuendolo nelle morti bianche, nella deprivazione degli affetti, oggi costellati di niente. Il tempo poetico di Elio Coriano è quello della performance, è quello di una dimensione ritmica che ha il sapore denso della vita, la rabbia del fuoco e la sopportazione del dolore che appartiene a quella grandine che s’abbatte sul terreno e sul terreno si scioglie senza dar cenno d’arrendersi, senza moderarsi nella caduta, anzi, ritrovandosi, nuova, una volta che come acqua fredda s’asciuga al sole, come lacrime, quelle di dolore che il poeta racconta nei suoi versi, quei versi, che in quella dimensione del ricordo, nel dolore s’amplificano e denunciano l’ingiustizia di quelle morti sul lavoro, di quel 13 giugno del 1960 che diventa tutte le morti sul lavoro lavate via dai codici, di cui parla in apertura Coriano, quei codici delle leggi, di quel diritto portato a fin di bene, ma che nato in mezzi repressivi ha già in sé il dolore e lo sgomento di chi inerme muore. I suoni delle Anime bianche, lontani dall’essere semplice sottofondo, conferiscono alla performance la dimensione reale, fisica, del ricordo che ci appare vivido davanti agli occhi, mescolato ad un canto spezzato, che trascinato si trascina a forza dal passato, perché, dice Coriano, “dimenticare significa esser complici”, e allora il palco è terreno diverso da quello a cui normalmente funge, è lo spazio di un campo, di un canto di lavoro dimenticato, sudato, incrostato di fatica e sangue, di chi appartiene “alla generazione della terra sotto le unghie” (Coriano) e dal dimenticatoio del nostro tempo sociale cerca il ritorno, cerca coscienze e consapevolezze che sappiano non essere aride, ma coltivarsi nella lotta e nel rispetto, nella tutela sacra della vita sul lavoro.

Francesco Aprile
2012-06-14

mercoledì 13 giugno 2012

Renato Leopizzi, un uomo per la libertà. Nota biografica

Renato Leopizzi nasce a Parabita il 19 luglio 1905. Di famiglia agiata, figlio di Andrea Leopizzi e Antonia Indraccolo, secondo genito di una famiglia numerosa – dopo di lui nasceranno altri 4 fratelli – trascorre la fanciullezza frequentando le scuole locali. Nel 1917 la morte della madre, alla quale seguirà, ad un anno di distanza, la morte del padre. I figli si divideranno fra una zia paterna ed una zia materna che vive a Lecce. Successivamente tutti i Leopizzi si trasferiranno a Lecce. Qui, Renato, studierà presso il Collegio Argento dei Gesuiti e poi presso le Scuole pubbliche, e stringerà amicizia con Raffaele Aloisi, il cui padre avrà un’influenza importantissima sul giovane Reanato, avvicinandolo alla fede repubblicana. Dal 1920 al 1922 entra a far parte del Circolo Giovanile Giuseppe Mazzini, dimettendosi per le sue idee troppo spinte, non condivise dagli altri membri del circolo. Collabora con giornali e riviste, locali e nazionali: «L’Araldo, di Lecce; Il Crepuscolo, di Trieste; Lettura Artistica, di Brindisi; Rivista Dalmatica, di Zara; Piccolo Teatrale di Milano; Arte e Morale, di Salerno; Rinnovamento, di Messina; e altri; diventa membro dell’Associazione della Stampa di Lecce. Scrive, legge, studia, pubblica; progetta racconti e romanzi. Compone un dramma in 5 atti “Il fallo sociale” che pubblica nel 1924». (D’Antico, A., Renato Leopizzi, un uomo per la libertà, Edizioni Il Laboratorio, Parabita (Le) 1987).
Dal 4 gennaio 1925 è in Belgio, a Liegi dove studia Scienze Naturali presso la locale Università. A Liegi stringe rapporti d’amicizia e collaborazione con altri antifascisti italiani esuli o studenti come lui, fondando la rivista letteraria “Vita”. Dal novembre del ’26 è a Parigi, dove frequenta la Facoltà di Medicina della Sorbona. Qui, entra in contatto col gruppo di antifascisti che ruota attorno al “Corriere degli Italiani” che, poi, diventa sede della “Concentrazione antifascista”. Inizia a scrivere sotto lo pseudonimo di Elio Salentino, stringendo rapporti d’amicizia e collaborazione con Aldo Salerno, Alviso Pavan, Beltrani. Nel ’27 lascia Parigi per tornare a Lecce, ma viene intercettato un pacco presso la frontiera di Domodossola, speditogli dall’amico Pietro Piccarreta, contenente tutto il suo materiale rimasto a Parigi (libri, articoli, manoscritti) e «comprovante l’attività antifascita di Renato e il fatto che egli altri non era se non il noto Elio Salentino» (D’Antico, A.). Processato dal tribunale di Bari, viene condannato dalla Commissione Provinciale a 5 anni di confino. Riconosciuto colpevole di attività sovversiva e antinazionale, il 6 aprile 1928, viene condannato a 6 anni, tre mesi e quindici giorni di prigionia. «La famiglia inoltra ripetutamente domande di grazia che egli si rifiuta di firmare per non dover rinnegare i suoi principi, la sua fede, i suoi ideali» (D’Antico, A.). Il regime, non sapendo piegare il suo spirito lo definisce come “vaneggiante” rinchiudendolo nel Manicomio Criminale di Napoli (1932), ma nel ’33 viene fatto tornare a Lecce, dalla sorella Maria. A Lecce progetta una nuova rivista, “La nuova stampa”, scrive il romanzo “La campana del mio convento”, cerca di riallacciare i rapporti con gli altri antifascisti, ma la Lecce del tempo non si accorge di lui, che resta continuamente sorvegliato dalla polizia, e intraprende la strada del silenzio, dell’indifferenza. Un giorno abbandona, senza preavviso, Lecce, recandosi a piedi a Parabita «dove aveva ascoltato per la prima volta la tenerezza degli affetti e il tepore dei sentimenti, dove aveva stabilito le prime amicizie, sentito il palpito dei primi ideali, ascoltato la voce del bisogno di libertà» (D’Antico, A.). Si reca nel cimitero a pregare sulla tomba dei genitori. Viene ritrovato a Leuca e giudicato, dalla polizia, affetto da “paranoia allucinatoria, pericoloso per sé e per gli altri” internandolo nel Manicomio di Lecce. Un certificato accerta la morte di Leopizzi pochi anni dopo esser stato rinchiuso in manicomio, morirà, in realtà, nel 1974 senza aver mai saputo che il regime contro cui aveva combattuto era stato sconfitto.


Liberamente tratto da: D’Antico, A., Renato Leopizzi, un uomo per la libertà, Edizioni Il Laboratorio, Parabita (Le) 1987

La pelle dell'anima nelle opere di Cosimo Carlucci, in mostra al MUST

Il trauma del linguaggio, il soggetto, in questo caso l’opera dell’artista, divisa, interrotta. La trasposizione materica delle dinamiche inconscie del soggetto. Di Cosimo Carlucci, artista nato nel 1919 a San Michele Salentino e morto nel 1987 a Roma, sono esposte in mostra permanente 59 opere, suddivise fra Rame e Legni – Stratigrafie – Lamellari e Strutture Luce, presso il MUST  (Museo Storico Città di Lecce). Donate dall’artista alla città di Lecce negli ’80, le opere si muovono nel frastagliato della dimensione inconscia dell’uomo, di quella sua strutturazione come linguaggio, che pone l’uomo come effetto del linguaggio stesso; ritroviamo la riproposizione egoica dell’individuo, strutture falliche in legno, di memoria thalassiale, un’opera del 1961 intitolata “Aggressivo”, a metà fra il tracciato lacaniano di quella sessualità maschile curva su se stessa perché incentrata sul godimento dell’organo e il percorso thalassiale di Ferenczi del fallo come termine nevralgico di concentrazione di tensioni; poi, ancora, “Violenza”, opera in legno del 1960, è la frammentazione, la divisione nella struttura, sezionata, l’opera permane nell’impossibilità, nell’indicibile che è altro dall’opera stessa che in quanto tale ex-siste e riporta determinate condizioni. Ci sono traumi, scontri, ritmi antichi sconosciuti, l’opera “Scontro”, del 1962, sembra porsi come la concretizzazione della penetrazione, l’incavo tondo, il ritorno ad un mare primordiale, i denti che mordono ritornano nel legno che penetra nella struttura circolare di una dimensione precedente all’individuo, e “Simbiosi” (1962), è il ritorno avvenuto, o la nascita ancora da compiersi che precede ogni tentativo di ritorno, che precede ogni concentrazione verso il basso dell’esistenza, che si annida al mare thalassiale, al ventre, all’uomo che nuota in un mare di segni e dai segni è segnato nel dominio del significante fino ad arrivare a “Trauma” (1963), struttura in legno, fallica, che si annida nel trauma del linguaggio, nell’inconscio che è significante senza significato, mancanza di godimento persa nella divisione strutturale in un percorso che procede verso opere di lavorazione Lamellare e Strutture Luce, che sono squarci e corposità spaziale dell’elemento luce, dell’aria, a metà fra Burri e i tagli di Fontana. Le sculture in rame strappano la pelle dell’individuo, della persona slegata da ogni maschera, tolta dal contesto e riproposta come pelle raschiata dall’ultimo fondo della sua rappresentazione sociale, a lasciare la pelle dell'anima. Un trono squarciato che è un ritaglio della rappresentazione del potere, distrutto, ma torna a compiersi nel sapere di se stesso, nella produzione di forme sociali, si apre alla materia della luce negli squarci che nella sua “pelle” affondano nel dominio del linguaggio, nella violenza del diritto ottenuto col potere, nella violenza del passaggio da forme sociali antiche a forme familiari moderne che nella forza e nella svalutazione delle figure, delle forme, vivono.

Francesco Aprile
2012-06-11
Da Il Paese Nuovo, 2012-06-13

lunedì 11 giugno 2012

Vogliamo un mondo a colori




Sotto il Vesuvio di Andy Warhol



"Sotto il Vesuvio di Andy Warhol", sabato 9 giugno a Lecce, presso San Francesco della Scarpa, è stata inaugurata la mostra che vede esposta la famosa opera di Andy Warhol, "Vesuvius".

In esposizione, l'imponente opera di Warhol dedicata al Vesuvio, che dà il titolo alla mostra. Nel 1981 Andy Warhol realizza per Lucio Amelio l'opera "Fate Presto", ispirata al disastroso terremoto del 23 novembre 1980, serigrafando una pagina del quotidiano napoletano "Il Mattino". Il rapporto dell'artista americano con Napoli diventa fecondo e si concretizza con una serie di lavori approntati per la mostra "Vesuvius by Warhol", presentata a Capodimonte, dove rimane come dono l'opera che sarà presente nella mostra leccese, "Vesuvius".

"La gentile concessione del Museo Nazionale di Capodimonte di mettere a disposizione del Museo Provinciale di Lecce il grande dipinto di Warhol ha fatto nascere l'idea di una piccola mostra che raccontasse frammenti di emozioni napoletane, tra passato e presente", racconta la vice presidente e assessore alla Cultura della Provincia di Lecce Simona Manca, "così sotto il Vesuvio ecco la memoria di una Napoli Barocca con le Nature Morte del Sei e Settecento; Acquerelli Incisioni e Vedute dell'Ottocento e poi il post-Warhol con Facce di Partenope di Vittorio Pescatori. Una sorta di viaggio, dunque, che ha come unico denominatore Napoli dal ‘600 ad oggi".

L'allestimento prevede, oltre all'opera di Warhol, una serie di Nature Morte del Sei e Settecento, opere di artisti napoletani, una serie di acquerelli, incisioni e vedute dell'Ottocento che illustrano il costume napoletano e, infine, la serie straordinaria di fotografie pastellate di Vittorio Pescatori, anch'esse naturalmente dedicate a Napoli nella sezione intitolata "Facce di Partenope".

Curatori della mostra, Fabrizio Vona e Antonio Cassiano, direttore del Museo Provinciale. Il catalogo è edito da Congedo.

La mostra sarà visitabile fino al 27 agosto, tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 16 alle 20; sono previste visite guidate e attività didattiche specifiche. Info: 0832 683503.