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giovedì 9 agosto 2012

Dell'accogliere reciproco

La natura è suscettibile al concetto comportamentale che sviluppiamo in relazione ad esso. Se vediamo solo merce essa diventa inerte, ovvero idonea ad essere commerciata: anticipa i nostri scopi morendo.
(Norman Mommens, Spigolizzi, 1989)

1.

Lecce. Giovedì 2 agosto 2012. Comitive di turisti assiepano una manciata di strade di pietra. Sono le otto del mattino, l’aria è ancora fresca o almeno ne mantiene l’apparenza. Fra poco le pietre vomiteranno sudore, il sole le passerà da parte a parte come fa con gli occhi quando si aprono al risveglio, e scriverà una serie di umori strattonandole nella loro immobilità, iniziandole ogni volta alla vita.
Comitive di turisti affollano una manciata di strade di pietra, dove il tempo ne ha perfezionato la dimensione, ingozzandole, destinandole ad un lembo rarefatto dell’anima. Sembra quasi non ci sia equilibrio. Facce su facce si attorcigliano l’una sull’altra cercando d’apparire, come le facce della gente il sabato sera su queste stesse strade. Un ricordo vecchio di pochi giorni custodisce ancora nei miei occhi la sensazione di una pietra diversa; una pietra che ha saputo mescere il passato e il presente in un equilibrio importante perché denso di cose da ricercare, senza il peso di un affanno claustrofobico. A Specchia, la pietra di castello Risolo, tumefatta dal tempo senza che questo ne ingozzi l’esistenza con violenze immani, viveva, nei giorni del Festival di Cinema del Reale, fra due dimensioni diverse. Il sapore mitologico, arcaico, delle pietre e della luce dei colori di Norman Mommens e la multimedialità di un festival che sa come progettare la sua scansione, contribuendo ad un Sud come discorso di crescita capace di sostanziarsi nello scambio del reciproco accogliersi, più che nella vetrina politica della mondanità salentina.

2.


Lecce. Giovedì 2 agosto 2012. Il giorno si scalda e comitive di turisti s’ingozzano di sudore come conchiglie straripate dal mare, arroccati in strade antri di pietra mortificate dalla condizione commerciale che violenta il ventre caldo della vita. Giorni prima, a Specchia, le pietre di Norman Mommens accendevano una poetica che spostava la dimensione dell’uomo al centro di un canto antico, perforato da danze tribali e grandezze oceaniche che pervadono il nostro corpo, acuendone la percezione e il riconoscimento, eludendo la scansione temporale di un posto dove gli orari dei temporali si azzuffano con un cielo scaltro, alato, sempre troppo netto, sempre troppo scottato, in un pezzo di dimensione archetipa sostanziato, ancora, da persone nascoste dietro porte e finestre, incasellate in relazioni che dialogano fra loro con l’intensa voce del silenzio, che fa l’amore col mare nell’antro di una conchiglia.


Francesco Aprile
2012-08-04


lunedì 9 luglio 2012

Sophie Raimbault//il n’y a pas de titre


Peut-être. Può essere che a capire una città, un luogo, ci voglia tempo, come diceva il poeta-paesologo Franco Arminio, lo scorso 26 maggio presso il Fondo Verri di Lecce, quel tempo necessario per entrare in un luogo e sentirlo respirare dentro, insieme al proprio respiro. Le strade del centro storico sono strette, ma sembrano dilatarsi nella luce soffocante come fossero ombre di De Chirico. I colori sono quelli di una vita, quelli delle pietre e dei venditori che affollano il corso più dei turisti assiepati ad immortalare l’impossibile. Nel mezzo, Sophie Raimbault che dalla Francia, dice, era venuta in Italia, a Lecce, lo scorso anno per sei mesi presso l’Accademia di Belle Arti, ed ora è qui, di nuovo, fra queste strade ammonticchiate l’una sull’altra che si strofinano l’anima fra loro e tutte quelle esistenze di passaggio. Vende quadri, disegni, serigrafie, con un banchetto barcollante ed una scritta su un pezzo di cartone grezzo che recita “Arte Libera...forse”, perché, dice, “Cosa c’è di libero?”. Nelle parole connotate da un italiano incerto, ma sincero, mostra, contratto, il respiro della tradizione filosofica francese, si porta addosso tutto quell’incipit, pesante come un macigno, che Rousseau sprigiona nel suo “Contratto sociale”, che lei esprime tutto in quel “forse”, marchiato con un pennarello nero a ricordare le catene di un mondo sociale a misura di pochi; «L’uomo è nato libero e ovunque è in catene. Chi si crede padrone degli altri è nondimeno più schiavo di loro» (Rousseau). Parla piano, lei, respira e accoglie quello che ha attorno e, forse, ha capito lo spazio di questa città prima di noi stessi, prima di altri che certe strade da sempre le scorrono senza percorrerle mai veramente. Ha capito che l’incertezza del suo banchetto è una libertà che cerca di crescere e far crescere, che accoglie in sé le differenze e queste accolgono lei e le sue rappresentazioni. Ha forgiato i colori con il suo io che diventa un noi, capendo che non si può rappresentare il nulla. Ha capito che qui la luce è sempre troppa luce, e il buio è sempre troppo buio, senza rappresentazioni di sorta, che i contorni sono sempre troppo definiti e mai sfumati, che qui esiste un contrasto sempre troppo netto fra il mondo sotto i piedi e quello sopra le nostre teste, che la città respira a fatica perché è schiacciata da un cielo troppo pesante in quella condizione di infinità che si esprime, ancora, in quei contorni troppo netti, estenuanti. Ha capito che la città è definita, che è come un adesivo appiccicato sul cielo, e teme di cadere, di staccarsi e schiacciarsi al suolo. Ha trasfigurato il barocco, capendo che non si può rappresentare il nulla, ché quando ci si apre all’accumulo forsennato, al moltiplicarsi di facce l’una sull’altra, per esteriorizzare, portare lontano, fuori dal mondo e dalla dimensione umana, è proprio il soggetto che perde e si apre al nulla; come la Santa Croce di Carmelo Bene, fuori, tutto, e dentro il nulla per il dio che non c’è. Ha trasfigurato il barocco in una linearità semplice e netta, come i contrasti, i contorni, i confini precisi fra la città e il cielo. Ama l’arte di Antony Clavé e il tribalismo urbano di Jean-Michel Basquiat, ama la manipolazione timbrica delle stampe artigianali di Le Tampographe. A volte, per capire un luogo è necessaria una prospettiva esterna che arricchisce i nostri sguardi con l’ottica diversa di chi non è assuefatto a questi respiri smorzati. Ha un blog che non ha un titolo, il n’y a pas de titre a ce blog, e non riesce a capirlo: http://ilnyapasdetitreaceblog.blogspot.it/.

Francesco Aprile
2012-07-09








venerdì 22 giugno 2012

Edoardo De Candia, il tratto selvaggio dei colori delle belve

Il pensée du Midi in Albert Camus, non abbandonarsi alla hybris, al peccato, il senso del limite per non sfociare incondizionatamente né nella ragione, né nella religione, non arrendersi a quel senso tutto europeizzante della catastrofe del vivere, della totalità della ragione. Mantenersi alla giusta distanza, nutrirsi della luce. I colori di Matisse, le belve del fauvismo, le forme allungate delle donne di Matisse, lo strabordare di queste forme, di gambe, braccia, il nudo rosa, corpi distesi danzanti espressione di una dimensione che è affermazione di vita. Edoardo De Candia è sintesi ed evoluzione di tutto questo. Pittore, nato a Lecce nel 1933 e morto, sempre a Lecce, nell’agosto del 1992. Il poeta Antonio Leonardo Verri lo inserì fra i Selvaggi Salentini. I nudi di De Candia sono tratto, sono luce e tormento, espressione di una pittura che è sintesi dell’esperienza selvaggia delle forme e dei colori di Matisse, ma che in De Candia si realizzano, nei nudi, come tratto e desiderio, ritornare a qualcosa di dimenticato, il raccordo con la coperta delle mancanze, dei turbamenti. La gioia del vivere di quello che Verri definì un “Cavaliere senza terra” è raccontata proprio dal poeta di Caprarica di Lecce che in svariati scritti ed interviste tratteggia la figura essenzialmente Midi del penserio e del gesto di De Candia, che si nutre di luce, di sole, di mare, di un bagno che appartiene a chi sa come accostarsi alle acque per districarvisi in un momento di raccordo ad una dimensione silenziosa perché dimenticata, recondita, nascosta nell’intimo della condizione umana, del nuotare in un universo di luce, di calore che accoglie la vita e sostiene la creazione. I nudi di De Candia rendono chiara una sintesi di tutto questo, esulando dal colore delle forme nelle figure di Matisse, si fanno tratto, lucidità di un desiderio che dall’Altro è frustrato, filtrando il tormento nell’essenzialità delle forme che si aprono alla vita, ma che il vissuto personale del pittore traduce in questa sua sintesi estrema, fra l’esperienza del manicomio e l’inesaurita richiesta di vita, nella continua rappresentazione delle forme, dei corpi attraverso cui provare una winnicottiana autoesperienza di sé, attraverso la ricezione del corpo e della sua immagine. Scrive Francesco Saverio Dòdaro, nel volume “Edoar Edoar” curato da Maurizio Nocera per le edizioni Il Raggio Verde nel 2006, che le coperte del letto con le quali Edoardo De Candia, disteso, gioca, sono «un’inquadratura di grande interesse: fotogrammi winnicottiani, connotativi di profonda solitudine, di richiesta d’amore, di protezione maternale. E qui l’aggettivo va ampliato, va vocalizzato tra i lampioni spenti dell’agorà e i camici bianchi della follia. Tra le manette e l’elettroshock. Il gioco delle coperte. E lo sputo. Il rutto. Lo sperma. Tutta da sviluppare la com-prensione». Edoardo De Candia, «una delle figure artistiche più sottovalutate del nostro ‘900» (Egidio Marullo, docente di Storia dell’arte), fu espressione totale dell’arte per l’arte che non si sporca con nulla e continua a generarsi nella purezza della sua luce, nell’incontro mai accantonato, nonostante le vicissitudini, nella continua ricerca di positività che nell’Altro esiste nel possibile delle relazioni sociali. Lucio Fontana, a Milano, si accorse di lui, percependone «il guizzo, la genialità; fino a che trova il modo per mandarlo in Inghilterra, a Londra, presso un college, una buona Accademia d’Arte» (A. L., Verri, Edoardo, un cavaliere senza terra, Sud Puglia, settembre 1988). Ma Edoardo cercava il contatto, come quella parola “Amo” dipinta nel tratto selvaggio dei colori delle belve.

Francesco Aprile
2012-06-22


mercoledì 13 giugno 2012

Renato Leopizzi, un uomo per la libertà. Nota biografica

Renato Leopizzi nasce a Parabita il 19 luglio 1905. Di famiglia agiata, figlio di Andrea Leopizzi e Antonia Indraccolo, secondo genito di una famiglia numerosa – dopo di lui nasceranno altri 4 fratelli – trascorre la fanciullezza frequentando le scuole locali. Nel 1917 la morte della madre, alla quale seguirà, ad un anno di distanza, la morte del padre. I figli si divideranno fra una zia paterna ed una zia materna che vive a Lecce. Successivamente tutti i Leopizzi si trasferiranno a Lecce. Qui, Renato, studierà presso il Collegio Argento dei Gesuiti e poi presso le Scuole pubbliche, e stringerà amicizia con Raffaele Aloisi, il cui padre avrà un’influenza importantissima sul giovane Reanato, avvicinandolo alla fede repubblicana. Dal 1920 al 1922 entra a far parte del Circolo Giovanile Giuseppe Mazzini, dimettendosi per le sue idee troppo spinte, non condivise dagli altri membri del circolo. Collabora con giornali e riviste, locali e nazionali: «L’Araldo, di Lecce; Il Crepuscolo, di Trieste; Lettura Artistica, di Brindisi; Rivista Dalmatica, di Zara; Piccolo Teatrale di Milano; Arte e Morale, di Salerno; Rinnovamento, di Messina; e altri; diventa membro dell’Associazione della Stampa di Lecce. Scrive, legge, studia, pubblica; progetta racconti e romanzi. Compone un dramma in 5 atti “Il fallo sociale” che pubblica nel 1924». (D’Antico, A., Renato Leopizzi, un uomo per la libertà, Edizioni Il Laboratorio, Parabita (Le) 1987).
Dal 4 gennaio 1925 è in Belgio, a Liegi dove studia Scienze Naturali presso la locale Università. A Liegi stringe rapporti d’amicizia e collaborazione con altri antifascisti italiani esuli o studenti come lui, fondando la rivista letteraria “Vita”. Dal novembre del ’26 è a Parigi, dove frequenta la Facoltà di Medicina della Sorbona. Qui, entra in contatto col gruppo di antifascisti che ruota attorno al “Corriere degli Italiani” che, poi, diventa sede della “Concentrazione antifascista”. Inizia a scrivere sotto lo pseudonimo di Elio Salentino, stringendo rapporti d’amicizia e collaborazione con Aldo Salerno, Alviso Pavan, Beltrani. Nel ’27 lascia Parigi per tornare a Lecce, ma viene intercettato un pacco presso la frontiera di Domodossola, speditogli dall’amico Pietro Piccarreta, contenente tutto il suo materiale rimasto a Parigi (libri, articoli, manoscritti) e «comprovante l’attività antifascita di Renato e il fatto che egli altri non era se non il noto Elio Salentino» (D’Antico, A.). Processato dal tribunale di Bari, viene condannato dalla Commissione Provinciale a 5 anni di confino. Riconosciuto colpevole di attività sovversiva e antinazionale, il 6 aprile 1928, viene condannato a 6 anni, tre mesi e quindici giorni di prigionia. «La famiglia inoltra ripetutamente domande di grazia che egli si rifiuta di firmare per non dover rinnegare i suoi principi, la sua fede, i suoi ideali» (D’Antico, A.). Il regime, non sapendo piegare il suo spirito lo definisce come “vaneggiante” rinchiudendolo nel Manicomio Criminale di Napoli (1932), ma nel ’33 viene fatto tornare a Lecce, dalla sorella Maria. A Lecce progetta una nuova rivista, “La nuova stampa”, scrive il romanzo “La campana del mio convento”, cerca di riallacciare i rapporti con gli altri antifascisti, ma la Lecce del tempo non si accorge di lui, che resta continuamente sorvegliato dalla polizia, e intraprende la strada del silenzio, dell’indifferenza. Un giorno abbandona, senza preavviso, Lecce, recandosi a piedi a Parabita «dove aveva ascoltato per la prima volta la tenerezza degli affetti e il tepore dei sentimenti, dove aveva stabilito le prime amicizie, sentito il palpito dei primi ideali, ascoltato la voce del bisogno di libertà» (D’Antico, A.). Si reca nel cimitero a pregare sulla tomba dei genitori. Viene ritrovato a Leuca e giudicato, dalla polizia, affetto da “paranoia allucinatoria, pericoloso per sé e per gli altri” internandolo nel Manicomio di Lecce. Un certificato accerta la morte di Leopizzi pochi anni dopo esser stato rinchiuso in manicomio, morirà, in realtà, nel 1974 senza aver mai saputo che il regime contro cui aveva combattuto era stato sconfitto.


Liberamente tratto da: D’Antico, A., Renato Leopizzi, un uomo per la libertà, Edizioni Il Laboratorio, Parabita (Le) 1987

La pelle dell'anima nelle opere di Cosimo Carlucci, in mostra al MUST

Il trauma del linguaggio, il soggetto, in questo caso l’opera dell’artista, divisa, interrotta. La trasposizione materica delle dinamiche inconscie del soggetto. Di Cosimo Carlucci, artista nato nel 1919 a San Michele Salentino e morto nel 1987 a Roma, sono esposte in mostra permanente 59 opere, suddivise fra Rame e Legni – Stratigrafie – Lamellari e Strutture Luce, presso il MUST  (Museo Storico Città di Lecce). Donate dall’artista alla città di Lecce negli ’80, le opere si muovono nel frastagliato della dimensione inconscia dell’uomo, di quella sua strutturazione come linguaggio, che pone l’uomo come effetto del linguaggio stesso; ritroviamo la riproposizione egoica dell’individuo, strutture falliche in legno, di memoria thalassiale, un’opera del 1961 intitolata “Aggressivo”, a metà fra il tracciato lacaniano di quella sessualità maschile curva su se stessa perché incentrata sul godimento dell’organo e il percorso thalassiale di Ferenczi del fallo come termine nevralgico di concentrazione di tensioni; poi, ancora, “Violenza”, opera in legno del 1960, è la frammentazione, la divisione nella struttura, sezionata, l’opera permane nell’impossibilità, nell’indicibile che è altro dall’opera stessa che in quanto tale ex-siste e riporta determinate condizioni. Ci sono traumi, scontri, ritmi antichi sconosciuti, l’opera “Scontro”, del 1962, sembra porsi come la concretizzazione della penetrazione, l’incavo tondo, il ritorno ad un mare primordiale, i denti che mordono ritornano nel legno che penetra nella struttura circolare di una dimensione precedente all’individuo, e “Simbiosi” (1962), è il ritorno avvenuto, o la nascita ancora da compiersi che precede ogni tentativo di ritorno, che precede ogni concentrazione verso il basso dell’esistenza, che si annida al mare thalassiale, al ventre, all’uomo che nuota in un mare di segni e dai segni è segnato nel dominio del significante fino ad arrivare a “Trauma” (1963), struttura in legno, fallica, che si annida nel trauma del linguaggio, nell’inconscio che è significante senza significato, mancanza di godimento persa nella divisione strutturale in un percorso che procede verso opere di lavorazione Lamellare e Strutture Luce, che sono squarci e corposità spaziale dell’elemento luce, dell’aria, a metà fra Burri e i tagli di Fontana. Le sculture in rame strappano la pelle dell’individuo, della persona slegata da ogni maschera, tolta dal contesto e riproposta come pelle raschiata dall’ultimo fondo della sua rappresentazione sociale, a lasciare la pelle dell'anima. Un trono squarciato che è un ritaglio della rappresentazione del potere, distrutto, ma torna a compiersi nel sapere di se stesso, nella produzione di forme sociali, si apre alla materia della luce negli squarci che nella sua “pelle” affondano nel dominio del linguaggio, nella violenza del diritto ottenuto col potere, nella violenza del passaggio da forme sociali antiche a forme familiari moderne che nella forza e nella svalutazione delle figure, delle forme, vivono.

Francesco Aprile
2012-06-11
Da Il Paese Nuovo, 2012-06-13

lunedì 11 giugno 2012

Vogliamo un mondo a colori




Sotto il Vesuvio di Andy Warhol



"Sotto il Vesuvio di Andy Warhol", sabato 9 giugno a Lecce, presso San Francesco della Scarpa, è stata inaugurata la mostra che vede esposta la famosa opera di Andy Warhol, "Vesuvius".

In esposizione, l'imponente opera di Warhol dedicata al Vesuvio, che dà il titolo alla mostra. Nel 1981 Andy Warhol realizza per Lucio Amelio l'opera "Fate Presto", ispirata al disastroso terremoto del 23 novembre 1980, serigrafando una pagina del quotidiano napoletano "Il Mattino". Il rapporto dell'artista americano con Napoli diventa fecondo e si concretizza con una serie di lavori approntati per la mostra "Vesuvius by Warhol", presentata a Capodimonte, dove rimane come dono l'opera che sarà presente nella mostra leccese, "Vesuvius".

"La gentile concessione del Museo Nazionale di Capodimonte di mettere a disposizione del Museo Provinciale di Lecce il grande dipinto di Warhol ha fatto nascere l'idea di una piccola mostra che raccontasse frammenti di emozioni napoletane, tra passato e presente", racconta la vice presidente e assessore alla Cultura della Provincia di Lecce Simona Manca, "così sotto il Vesuvio ecco la memoria di una Napoli Barocca con le Nature Morte del Sei e Settecento; Acquerelli Incisioni e Vedute dell'Ottocento e poi il post-Warhol con Facce di Partenope di Vittorio Pescatori. Una sorta di viaggio, dunque, che ha come unico denominatore Napoli dal ‘600 ad oggi".

L'allestimento prevede, oltre all'opera di Warhol, una serie di Nature Morte del Sei e Settecento, opere di artisti napoletani, una serie di acquerelli, incisioni e vedute dell'Ottocento che illustrano il costume napoletano e, infine, la serie straordinaria di fotografie pastellate di Vittorio Pescatori, anch'esse naturalmente dedicate a Napoli nella sezione intitolata "Facce di Partenope".

Curatori della mostra, Fabrizio Vona e Antonio Cassiano, direttore del Museo Provinciale. Il catalogo è edito da Congedo.

La mostra sarà visitabile fino al 27 agosto, tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 16 alle 20; sono previste visite guidate e attività didattiche specifiche. Info: 0832 683503. 
 
 

domenica 27 maggio 2012

Appartenere al mondo



Franco Arminio, poeta-paesologo ospite del Fondo Verri di Lecce nella serata di sabato 26 maggio 2012

I libri spesso sono una sconfitta per chi li scrive. Chi pensa di aver aggiunto qualcosa è un illuso. I libri migliori non aggiungono nulla, solo in pochi casi miracolosi sottraggono qualcosa al mondo e il mondo più tardi se ne accorge.
(Terracarne, Mondadori, Milano 2011, Nota Finale) 

Portare l’attenzione sulla sofferenza, sul dolore, distogliere lo sguardo da ciò che oggi ci ricopre, spezzare la maschera attoriale per non sopprimerci, da noi, nel gioco di una rappresentazione sociale che astrae, distrae, scuce e distrugge. Oggi, le cose ci scivolano addosso, quelle delle nostre necessità che scartiamo via come prodotti ormai scaduti, per rifugiarci nel comfort sempre troppo facile dell’apparenza frivola.  È l’attenzione che Franco Arminio, poeta-paesologo ospite del Fondo Verri di Lecce nella serata di sabato 26 maggio, chiede e crea, porta sulla scena di una rappresentazione che mossa nella tessitura del dialogo comune, del confronto, si muove, s’agita, esce dai canoni dell’uso quotidiano del linguaggio per affrancarsi, per concimarsi alle necessità che oggi via via si perdono. Cerca la parola comunità, Arminio, e la ricerca nella continua tessitura, accompagnato nel dialogo da Mauro Marino che del Fondo Verri, assieme a Piero Rapanà, ha fatto negli anni spazio di confronto e apertura costante. Ci sono versi in calce che sanno ascoltare l’aria come un volo di rondine apre ali e libera pensiero. Quello di Arminio è un dialogo costante, intenso, con la parola che non è mai slegata da un contesto, avulsa, contorta o svuotata di senso, ma, anzi, è nel contesto che si crea e alimenta la fiamma dell’impegno, perché è impegno la poesia; ha da raccontare un vissuto quotidiano che sposta l’occhio dalle grandi narrazioni e si concentra sul vivere, su quelle necessità che per forza di cose guardano in faccia le sofferenze, il dolore, la morte e da queste si rafforzano, sanno crescere e mescere spartiti diversi, lontananze che nella necessità, appunto, sanno ritrovarsi come vicine; perché è in ciò che è comune agli uomini che la vita muove, e ciò che è comune è agli uomini universale. Dice d’aver iniziato ad entrare in Lecce e la sua realtà soltanto ora, dopo esserci già stato due o tre volte prima d’oggi. Prima, dice, la città gli era scivolata addosso, ne aveva visto il barocco, i monumenti, ma gli era scivolata addosso, perché di un luogo bisogna sentirne il respiro, il passo, l’incedere quotidiano dell’uomo e della natura dei posti. Ha capito che come molti Sud c’è qualcosa che tende a trascinare tutto con sé, verso il basso, verso la mortificazione delle risorse, della creatività che s’affanna a vivere dove la visione politica è troppo spesso accorta a soluzioni proprie di un modernismo improvvisato. Ma c’è qualcosa che nelle sue parole mi riporta alla mente altre parole, altri impegni, altre dimensioni. Lo ascolto, ne leggo le parole, lo spazio che occupa la morte e la dimensione del dolore, la possibilità di esserci e progredire nella sofferenza e nelle piccole cose, nel quotidiano, nell’aprirsi ad una dimensione propriamente umana che possa designare, anche, una vita migliore, a dimensioni etiche che liberano l’uomo dal timore che, accompagnato da tutto un sistema di sovrastrutture, lo porta a scartare, ad allontanarsi dal fare i conti con l’inevitabile corso della vita per rifugiarsi nella pallida, ma semplice e fugace, coperta della rappresentazione di un linguaggio-uomo-feticcio. E penso che sia nella necessità del tornare ad essere uomini che ascoltano lo spazio che li circonda, che se ne nutrono, e questo traducono in esperienza di vita, che si realizza l’universalità-comune della pratica poetica di Arminio, che in quel suo affrontare il dolore, per sempre continuare a costruire, mi sembra vicino ad altre parole, altre dimensioni, altri impegni che in questi posti al sud hanno imbastito parole sulle necessità quotidiane. Penso a Salvatore Toma, al nome da scrivere su una croce per uscire “per strada a guardare la gente con occhi diversi”, penso a quel tuffo che in quelle parole si compie con in faccia la crudezza di un approccio che senza mezzi termini apre l’uomo al mondo, restituendolo alla sua appartenenza. Trovo questo in Arminio, un tornare dell’uomo al mondo, ad appartenere ad esso, esser parte dell’esistenza, per non giocare ancora a trarre in ostaggio il mondo e violentarlo con l’ineffabile dei nostri bisogni da messinscena televisiva.

Francesco Aprile
2012-05-27

domenica 20 maggio 2012

Dal catrame alle foglie che il vento sparge/Quarto appuntamento

Lunedì 21 maggio, eccezionalmente, il quarto appuntamento con "Dal catrame alle foglie che il vento sparge".

Più di quindici anni fa uomini e donne di varia provenienza si riunivano a Copertino con certa irregolarità per leggere scompostamente versi propri e altrui. La torma, a tratti ordinata, di poesia si ricompone, questa volta presso il circolo arci I Sotterranei.

Questa quarta serata ha l'adesione di:

Pierfrancesco Gatto
Giordano Greco
Anastasia Leo
Maurizio Leo
Massimiliano Manieri
Michela Maria Zanon

"Dal catrame alle foglie che il vento sparge" ha luogo ogni primo lunedì del mese.

La partecipazione è aperta a tutti e tutte.

martedì 17 aprile 2012

Contrabbando Poetico, per il non ristagno sociale

Tesi. Sono tesi gli animi al giusto accogliere il passato, cristallizzato in consapevolezza in un presente che è corda tesa verso il futuro. Tesi. Sono parole affisse, martedì 17 aprile 2012, a Lecce nei luoghi della non attenzione, nei luoghi preposti all’ascolto che dimenticano la loro funzione e si fondono nel ristagno di una società della frivolezza, della leggerezza estrema ad ogni costo, anche quando tutto va male. Coniugare il contesto storico con la dimensione passata, con la dimensione culturale esautorata.

Tesi. Sono parole affisse un martedì di un 17 aprile 2012, a Lecce, nei luoghi della non attenzione, per reclamare spazi di dialogo, confronto, discussione, per non anestetizzare ulteriormente la narcosi sociale.

Il testo dell’affissione:

Contrabbando poetico. All’azione. Nell’azione. In azione. Per l’azione. New action. Quotidianità e stratificazione. Flusso continuato dell’esistenza. Delle giornate. E dei cieli cancerogeni. Ammantati di niente. Sui nostri occhi. «Mentre le colline passano. E sfumano al cielo rosso della battaglia. Mentre le ore deragliano. Mentre gli oceani s’infrangono. E palpita la vita. Nel caldo petto di una nuova generazione. Armatevi poeti. Delle vostre parole» – ai faccendieri che imbrattano ogni cosa, agli arrampicatori sociali districati in un individualismo borbonico di seconda mano, a chi si destreggia nel discorso pavoneggiandosi non per dialogo e confronto, ma per imporre una schopenhaueriana parvenza di ragione e vittoria costruita sul nulla, agli editorini che speculano sui Poeti violentandone la memoria, agli scaffali che si riempiono di libri solo dopo la morte degli autori, ai poetini della domenica che ingolfano la dimensione culturale in cui viviamo, al loro forzato stringersi la mano ed appiccicare sorrisi falsi e recensioni amorevolmente riprovevoli ovunque capiti, ai giornali che degradano la cultura proponendo mai ricerca, mai avversione, ma solo autorini già ingabbiati nell’oblio dalla loro non scrittura, agli studenti che cambian pelle appiccicando sorrisi ovunque, pronti a saltare da una parte all’altra del carrozzone per racimolare convenienze e occasioni squallide, agli Scurati che marciano su deserti di inediti. Per questo, e per questa nostra terra decapitata dalla sua assenza di peso geo-politico sulla cartina culturale (e non solo), per questa nostra terra venduta dai suoi stessi cittadini come carne da macello, per chi ci ha tolto il futuro con anni di loschi giochi di potere. Armatevi poeti, delle vostre parole. Vogliamo uno spazio culturale come una sassaiola, come grandine, non di temporale, ma di eruttante dinamite, che possa riappropriarsi della sua funzione sociale, di chi scende a sporcarsi le mani, non con gli affari loschi del potere, ma con le parole logore dell’esistenza. Armatevi poeti, delle vostre parole. Armatevi poeti, delle vostre parole. A chi ha perso il clamore di un tempo, a chi non l’ha mai avuto, a chi potrebbe ritrovarlo. Ai Verri, Toma, Bodini, Pagano, Ruggeri, destituiti della loro potenza significante, sostituiti con poetini rancidi, pronti ad elemosinare parole al mercato grasso dei poteri. A loro che poeti sono stati e sono ignorati, perché svenduti da una terra che non li ha mai riconosciuti, sempre pronta a vendersi il culo per le necessità avide di alcuni. A chi ha dimenticato che spingere «gli amici di» è cosa diversa dal proporsi con spirito critico che osserva le cose. Protesta, protesta, protesta. Armatevi poeti, delle vostre parole.
«Grazie per non sostenere la pace sociale. Grazie. Per non sostenere la pace sociale»(cit., Starfuckers)
Contrabbando Poetico
Lecce, 2012/04/04
Per comunicare adesioni scrivere a: contrabbandopoetico@libero.it
Quotidiano, Lecce
Ateneo, Lecce
Ateneo, Lecce
Gazzetta del Mezzogiorno, Lecce
Palazzo Parlangeli, Lecce

lunedì 26 marzo 2012

50° Giornata Mondiale del Teatro

50° Giornata Mondiale del Teatro
l'Italie se mobilise avec l'ITI
International Theatre Institute


Lecce, Astragali Teatro, 27/03/2012

18 h

Conversation sur le thème Theatre et guerre
modérateur Fabio Tolledi, president ITI Italia,
directeur artistique et metteur en scène de Astragali Teatro

21 h

Lecture du Message de John Malkovich aux artistes
suivie de
Lysistrata - primo studio sull'oscenità del potere

entrée libre

Voir le clip :
ITI Italia - journée mondiale du theatre

calendrier des autres rendez-vous italiens
centro italiano dell'ITI UNESCO

lunedì 12 marzo 2012

Putan Club "Il Deserto"

putan club
con François R. Cambuzat
(Francia / L’Enfance Rouge)


Putan Club: espansione della rabbia di Billie Holiday contro Miss Kittin, di Armand van Helden contro Nick Drake, di François R. Cambuzat e Taùfik al-Firansyy contro tutti yankees.

Chitarre-el, samplers, loopers, DJing elettrico e junkyard maestoso.

Hey baby, that’s subversive…

Giovedì 15 e Venerdì 16 marzo I Sotterranei di Copertino ospiteranno il "Putan Club Stabile" - progetto speciale in anteprima europea di François R. Cambuzat de L'Enfance Rouge. Il progetto verrà presentato il 24 marzo al Teatro Garonne di Toulouse in Francia con LYDIA LUNCH. Per questa anteprima speciale François R. Cambuzat lancia una call for artists, una chiamata generale a tutti gli artisti pugliesi (musicisti, pittori, performer, scrittori ecc) per collaborare al progetto intorno al tema "Deserto". In fondo a questa email comunicato stampa ufficiale di Trasporti Marittimi, i promotori del progetto. Tutti coloro che fossero interessai a partecipare si possono proesentare a I Sotterranei giovedì 15 marzo alle 20:30 circa.

Dopo avere operato per sette anni in Salento e in Italia, l’associazione culturale Trasporti Marittimi aprì i suoi uffici in Francia nel 2008, poi in Tunisia nel 2009, tenendo operativo quello di Maglie (Le).

Prima creatori di festival, Trasporti Marittimi si allargarono al found-raising culturale ad un livello internazionale per produrre e seguire artisti ed eventi con la stessa etica dell’associazione, con un riguardo particolare al mondo musulmano – decretato nemico pubblico n°1 dopo i crolli del Muro di Berlino e delle Torri Gemelle di New York.

L’associazione culturale Trasporti Marittimi è stata creata sulla base del rigoroso volontariato di chi ci lavora e sul riconoscimento invece tutt’ora negato del ruolo sociale dell’arte e dell’artista. Un pensiero all’opposto delle direttive europee Bolkestein a riguardo della cultura. I Trasporti Marittimi non sono prestatari di servizio, ma agitatori culturali.

Nell’occasione del decimo compleanno dei Sotterranei di Copertino (Le), una riuscita culturale di aggregazione, di apertura mentale come di buona gestione condivisa, a tal punto che Ii Sotterranei sono ormai famosi in tutta Europa nel circuito della musica indipendente, l’associazione Trasporti Marittimi ha chiesto un progetto particolare a uno dei suoi artisti, François R. Cambuzat (Kim Squad, Gran Teatro Amaro, L’Enfance Rouge, Grand Orchestre du Désastre, Putan Club…).

Il Putan Club nacque nel 2001 dal desiderio di François R. Cambuzat di creare un progetto all’infuori delle estetiche delle sue altre realizzazioni. Sviluppò l'idea di lavorare su un'interazione tra musica e arti plastiche, invitando il celebre e pluri-premiato pittore belga Vincent Fortemps a collaborare. Il Putan Club fu invitato da numerosi teatri, gallerie di arte, centri culturali contemporanei, musei, consolati e dal Ministero francese della cultura. Il loro ultimo progetto è la creazione di uno spettacolo con la scrittrice-cantante-regista new yorkese Lydia Lunch per il Teatro Nazionale Garonne di Tolosa, Francia.

Ai Sotterranei di Copertino (Le), François R. Cambuzat rischier‡ la creazione di un Putan Club Stabile, ovvero ripetibile, con un tema per ogni mese.

Partendo dall’improvvisazione organizzata e diretta dall’autore, queste serate sono concepite per essere uno scambio folto – anche violento se necessario - di arti, idee e posizioni, anche politiche.

L’autore lo definisce "Un gioioso e giocoso comizio socio-politico-artistico – Kick out the jams, motherfuckers".

Il primo tema è il Deserto. Geografico, culturale o intellettuale. Con una citazione in aggiunta: "Il mondo sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo." Pier Paolo Pasolini, in "Vie Nuove n. 36", 6 settembre 1962.

Questo primo Putan Club Stabile si terra i giovedì 15 e venerdì 16 marzo 2012, presso I Sotterranei di Copertino (Le), in via delle Grazie, 5, alle ore 21.

I partecipanti possono essere artisti e non: lettori, attori, musicisti, fotografi, videasti, pittori, ballerini, gatti, porci, magnifici fannulloni, casalinghe, studenti o fruttivendoli. Gli iconoclasti sono benvenuti. I politici – quelli coraggiosi – sono aspettati. Il contatto per i bisogni tecnici degli partecipanti è : events@isotterranei.org e 3382782868.

Il successo di quest’evento socio-culturale è affidato alla stampa e i media locali e regionali per diffondere quest’invito a partecipare.

Luc Vallès - Manager

Svjetlana Bajramovic - Export Manager

Ahmed Darwish - Export Manager

Djamila Ben Barka - Export Manager

Stella Yoruni - Press-Office & Communication

martedì 6 marzo 2012

Affittasi Versi, Contrabbando Poetico

Affittasi Versi, pratiche di comunicazione urbana volte all’intrusione, al richiamo, al volgere l’indifferenza quotidiana verso un concretare esperienze d’interazione sociale, del tendersi all’ascolto del previsto, del non previsto. Un’azione del gruppo di Contrabbando Poetico, dal gennaio 2012 fra Lecce e Roma.

Contrabbando Poetico (CP) è un gruppo di ricerca e protesta artistica formato da giovani al di sotto dei 30 anni nell'aprile 2011, con sede a Lecce e Roma. L'obiettivo è quello di incanalare le tensioni del contesto storico nel tracciato artistico, attraverso una lettura adeguata del tempo, attualizzando l'aspetto artistico che, di volta in volta, viene relazionato a sempre diverse pratiche di diffusione che sfruttano i supporti e le tecniche della contemporaneità. Nel giugno 2011 furono i flyer, quelli il cui spazio è quotidianamente previsto per gli spazi pubblicitari, ad ospitare opere poietiche e visive, the medium is the message, realizzando una sorta di mostra urbana nei luoghi di flusso della quotidianità, una stratificazione sociale dell'opera artistica, il tutto realizzato fra Lecce e Roma, come, pure, performance multimediali attraverso l'utilizzo di webcam, installazioni artistiche urbane presso il Cinema del Reale ecc. Dal gennaio 2012 Contrabbando Poetico è in giro nei non luoghi leccesi e romani con un'azione performativa dal titolo Affittasi Versi, che sfrutta lo schema tipico attraverso il quale, solitamente, si pubblicizzano camere da affittare per studenti e non, nel caso specifico dell'azione di CP esasperando la condizione puramente strumentale di questo tipo di comunicazione, per ottenere un suo rivolgimento totale, attirando l'attenzione per modificazioni sostanziali del ritmo dello scorrimento-flusso della folla - il mcluhaniano ritmo insito nei media, un richiamo, una richiesta che spinge ad intercettare uno spaccato quotidiano diverso, che non cerca di vendere nulla, quindi non strumentale, ma che è una réclame puramente volta al piantare semi diversi, quelli di una quotidiana ricerca dell'alterità, del corpo husserliano che riconosce l'altro, per salvaguardare la condizione umana stritolata da un sistema in fallimento.