Francesco Aprile
2012-09-19
da Il Paese Nuovo, 2012-09-20
“Un teatro in Palestina. L’esperienza di Astràgali Teatro nei territori
occupati”, è un volume edito da Astràgali Edizioni che raccoglie i
resoconti dell’esperienza della compagnia teatrale in Palestina e
Giordania, nel 2010, all’interno del progetto Roads and desires, theatre
overcomes frontiers, svoltosi fra spettacoli e laboratori con attori
provenienti da Italia, Malta, Cipro, Grecia, Spagna, Palestina,
Giordania.
All’interno del volume, nelle sue “Note di viaggio in
Palestina”, Pietro Fumarola si concentra sul rapporto fra psichiatria e
disagio psichico in quello che definisce “un immenso campo di
concentramento a cielo aperto”. La domanda è cruciale, al punto da porsi
come snodo dal quale procedere nell’analisi e nell’osservazione di un
territorio dilaniato da continui conflitti. Se spostiamo il raggio
d’azione è possibile notare come, nell’ambito di stati modificati e
disagio psichico della e nella reclusione, brusche riduzioni o
interruzioni di stimoli nel passaggio verso situazioni di
ipocomunicazione, dovute a lunghi periodi di incarceramento, possano
provocare nell’individuo disagi quali vertigini, mancanze, transe da
ipostimolazione e altro ancora al punto da agire, nell’uso di pratiche
coercitive, con modificazioni della realtà psichica, snaturandola.
Lunghi periodi di internamento sembra possano persino distruggere la
persona, attraverso il rivolgimento in sé messo in atto nella chiusura
in quella prigione della carne che è data dal proprio corpo come punto
unico, ormai, dell’esistenza violata. È la violazione dell’esistere,
dell’individuo che, solitamente, evolve in pratiche che muovono
dall’esperienza vissuta al proprio interno. È nella cancellazione di
tale esperienza la deprivazione umana ed il luogo della domanda di
Fumarola sposta, giustamente, l’attenzione su quali siano le conseguenze
di una sorta di internamento costante, quotidiano, a cielo aperto. Il
luogo libero, vissuto come campo di concentramento a cielo aperto, come
struttura repressiva nella quale si è sottoposti ad una prolungata
esposizione in condizioni di costante pericolo, terrore, deprivazione di
elementi sociali propriamente umani, può portare ad un effettivo
capovolgimento del luogo, della sua ricezione e, quindi, del suo apporto
alla dimensione psichica dell’individuo? Tornando indietro, a stati di
incarceramento prolungato, il detenuto può esser consapevole che al di
fuori dello spazio di controllo può esserci ancora uno spazio “libero”,
seppur nella possibilità che una prolungata esposizione, forzata, a tale
controllo possa snaturare la persona. Ma come viene recepito il
capovolgimento dello spazio “libero” in campo di reclusione? In che
maniera agisce tale condizione? La situazione nel luogo di transito,
l’areoporto, che da Amman porta la compagnia di Astragali in Palestina, è
quella della deportazione del tempo, completamente rapito dalla forza
dei militari che usufruiscono a piacimento del tempo della persona,
violandone l’esistenza individuale. Se in una prima fase storica
dell’uomo, invece che di tempo, si potrebbe parlare di ritmo,
successivamente, prime divisioni tecniche portano alla razionalizzazione
di quello che chiamiamo tempo ed alla sua quantificazione verso prassi
di alienazione dello spazio vitale, il tempo. Lo strattonamento di tale
dimensione, che lo espropria con violenza all’individuo all’interno di
un contesto di temporanea repressione, pone il rapimento delle esistenze
nella proibizione dell’altro; attraverso, anche, ad un linguaggio che
non chiede, ma ordina, reprime, nega alla vita, strutturando una
condizione, nel rapimento del tempo, accostabile alla sua deportazione
in condizioni di reclusione. Un campo di concentramento a cielo aperto.