Il trauma del linguaggio, il soggetto, in questo caso l’opera
dell’artista, divisa, interrotta. La trasposizione materica delle
dinamiche inconscie del soggetto. Di Cosimo Carlucci, artista nato nel
1919 a San Michele Salentino e morto nel 1987 a Roma, sono esposte in
mostra permanente 59 opere, suddivise fra Rame e Legni – Stratigrafie –
Lamellari e Strutture Luce, presso il MUST (Museo Storico Città di
Lecce). Donate dall’artista alla città di Lecce negli ’80, le opere si
muovono nel frastagliato della dimensione inconscia dell’uomo, di quella
sua strutturazione come linguaggio, che pone l’uomo come effetto del
linguaggio stesso; ritroviamo la riproposizione egoica dell’individuo,
strutture falliche in legno, di memoria thalassiale, un’opera del 1961
intitolata “Aggressivo”, a metà fra il tracciato lacaniano di quella
sessualità maschile curva su se stessa perché incentrata sul godimento
dell’organo e il percorso thalassiale di Ferenczi del fallo come termine
nevralgico di concentrazione di tensioni; poi, ancora, “Violenza”,
opera in legno del 1960, è la frammentazione, la divisione nella
struttura, sezionata, l’opera permane nell’impossibilità,
nell’indicibile che è altro dall’opera stessa che in quanto tale
ex-siste e riporta determinate condizioni. Ci sono traumi, scontri,
ritmi antichi sconosciuti, l’opera “Scontro”, del 1962, sembra porsi
come la concretizzazione della penetrazione, l’incavo tondo, il ritorno
ad un mare primordiale, i denti che mordono ritornano nel legno che
penetra nella struttura circolare di una dimensione precedente
all’individuo, e “Simbiosi” (1962), è il ritorno avvenuto, o la nascita
ancora da compiersi che precede ogni tentativo di ritorno, che precede
ogni concentrazione verso il basso dell’esistenza, che si annida al mare
thalassiale, al ventre, all’uomo che nuota in un mare di segni e dai
segni è segnato nel dominio del significante fino ad arrivare a “Trauma”
(1963), struttura in legno, fallica, che si annida nel trauma del
linguaggio, nell’inconscio che è significante senza significato,
mancanza di godimento persa nella divisione strutturale in un percorso
che procede verso opere di lavorazione Lamellare e Strutture Luce, che
sono squarci e corposità spaziale dell’elemento luce, dell’aria, a metà
fra Burri e i tagli di Fontana. Le sculture in rame strappano la pelle
dell’individuo, della persona slegata da ogni maschera, tolta dal
contesto e riproposta come pelle raschiata dall’ultimo fondo della sua
rappresentazione sociale, a lasciare la pelle dell'anima. Un trono
squarciato che è un ritaglio della rappresentazione del potere,
distrutto, ma torna a compiersi nel sapere di se stesso, nella
produzione di forme sociali, si apre alla materia della luce negli
squarci che nella sua “pelle” affondano nel dominio del linguaggio,
nella violenza del diritto ottenuto col potere, nella violenza del
passaggio da forme sociali antiche a forme familiari moderne che nella
forza e nella svalutazione delle figure, delle forme, vivono.
Francesco Aprile
2012-06-11
Da Il Paese Nuovo, 2012-06-13
Francesco Aprile
2012-06-11
Da Il Paese Nuovo, 2012-06-13
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