martedì 28 febbraio 2012

1976. Movimento Arte Genetica, nel respiro di Ghen

Nel 1976 Francesco Saverio Dòdaro fonda il movimento di Arte Genetica. Due le testate del movimento, Ghen – con redazione a Lecce, e Ghen Res Extensa Ligu, con redazione a Genova. Il movimento, fondato a Lecce, lungi dall’essere espressione di locale provincialismo, ha rappresentato uno snodo cruciale nella ricerca artistica contemporanea, facendo ruotare attorno alle due riviste ed alle attività di ricerca del movimento, artisti fra i più importanti del panorama internazionale fra i quali, oltre al fondatore Dòdaro, Franco Gelli, Vittore Fiore, Guido Le Noci, Sandro Greco, Corrado Lorenzo, Armando Marocco, Antonio Massari, Enzo Miglietta, Fernando Miglietta, Antonio Paradiso, Ilderosa Petrucci Laudisa, Oscar Signorini, Italo Sider (così si firmava Carlo Alberto Augieri), Franco Verdi, Raffaele Nigro, Franca Maranò, Manlio Spadaro, Lucio Amelio, Center of Art and Communication (Toronto), CAYC Group (Rio De Janeiro), Giorgio Barberi Squarotti, Rolando Mignani, Toshiaki Minemura, William Xerra, Adriano Spatola, Gruppo X, Ernesto de Souza, Alternativa Zero, Experimental Art Foundation (South Australia), Paolo Barrile, Block Cor (Amsterdam), Nicole Genetet-Morel, Jaques Lepage, Stelio M. Martini, Giovanni Valentini, Giovanni Fontana, Pierre Restany, Amelia Etlinger, Vittorio Balsebre, Eugenio Miccini, Giuseppe Panella, Franco Vaccari, Mario Perniola, Franco Rella, Rickard Bottinelli, Bruno Munari, Ico Parisi, Klaus Groh e altri ancora.
Col Movimento di Arte Genetica Dòdaro rintraccia la ritmicità, la pulsione amniotica del linguaggio nel suono archetipo del battito del cuore materno, ascoltato in età fetale, nel grembo, simbolo dell'unità dispersa, della dualità dell'anima; per cui risulta, il linguaggio, basato su quella pulsione e musicalità che è propria della mancanza e del tentativo di ricomporre lo strappo della lacerazione, della separazione, della causa primaria intesa come manque à être lacaniana, che è la mancanza come separazione del soggetto centrale dal «complemento materno» (Dòdaro F. S., Codice Yem. Le origini del linguaggio, ovvero la rifondazione della coppia, in Ghen, Lecce 1979, giornale modulare a cura del movimento di Arte Genetica). L’origine del linguaggio come processo di lutto, per la separazione dalla madre all'atto della nascita, della lacerazione, mancanza, separazione.
Il suono delle parole è quello onomatopeico della felicità, del ritorno del bambino alla madre, del battito del cuore ascoltato in età fetale, dell’allattare al seno, quel seno che Francesco Saverio Dòdaro riconduce proprio alla parola felicità. Perché è l’umanizzazione del desiderio a condurre al linguaggio. Così, se la felicità è l’appagamento dei desideri ed il linguaggio si genera con l’umanizzazione del desiderio stesso che è possibile ricondurre al seno della donna, non a torto Dòdaro ricollega l’aspetto della Felicità al seno ed al femminile come desiderio ed umanizzazione dello stesso, delle pulsioni insite nell’uomo. E risalendo al termine Fecondo non si può non notare il legame col femminile al quale, dunque, risale anche la parola felicità, in quanto ad una attestazione storica il termine fecondo viene individuato come «detto di donna o di femmina di animali che può procreare» (Zanobi da Strata, 1364). Mentre dal greco possiamo risalire, ancora con più precisione, a Phyo (Fèo) dalla radice Bhu, essere, feto, femmina, felice. Il seno assume il ruolo del ricongiungimento all’essere nella sua unità primordiale, un tentativo di ricucire lo strappo dovuto alla mancanza che si genera all’atto della nascita. La separazione che Thass-Thienemann riconduce al vuoto, al trauma della nascita, individuando nelle antiche lingue slave la parola vuoto come contrario di incinta. In un componimento, inserito fra le rime attribuite a Petrarca, l’etimologia del termine seno incontra il ventre, infatti è scritto “ventre materno”, o per dirla con Giacomo da Lentini (1250) “intimità della coscienza”. L’appagamento della felicità, del ritorno all’unità primordiale, se da un lato può esser visto come incompletezza – il Simposio di Platone di questo ne è esempio, per quella sua concezione dell’uomo che volto alla ricerca dell’unità perduta insegue l’amore, cercando ciò che gli fa difetto -, d’altro lato può essere inteso come pienezza, forza generatrice, produzione; tutto ciò nel contesto, unico, delle due facce di una medaglia. Deleuze e Guattari considerano il desiderio come creazione, dunque è nella produzione radicale della saggezza, che dal desiderio si sprigiona, che nascono forze positive volte alla creazione, alla gioia. Il bambino freudiano che allatta al seno della madre, primo simbolo erotico, ricongiunge se stesso, attraverso la zona erogena che Freud individua nelle labbra, all’unità primigenia della felicità, del ciò che è stato, del wesen ist was gewesen ist hegeliano, al corpo husserliano come punto nullo dal quale parte il riconoscimento dell’altro come oggetto del mondo e soggetto capace di interpretazione dello stesso in virtù dell’intersoggettività comunicativa. In Kant e Hobbes il desiderio è la leva, le passioni sono più forti della ragione. Rousseau parla di un linguaggio la cui invenzione grava sulle spalle del bambino. Il romanticismo inglese dirà che il bambino è il padre dell’uomo. Simmel parla di una realtà prospettica, frammentaria come tasselli di un puzzle e di un’arte che nascerebbe dai frammenti tesi verso il senso che è proprio del conferire unità.
Mar/e Amniotico, opera realizzata da Dòdaro nel 1983, e che oggi si trova presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze - Libri e pagine d’artista, si inscrive, attraverso quella lettera "e" usata in bilico fra l’essere semplice conclusione della parola Mare e la sua caratteristica di congiunzione, nel solco della sua ricerca genetica ricollegandosi, anche, all'opera Dichiarazione onomatopeica, dello stesso Dòdaro e realizzata nel 1979, in cui la funzione della "e" si identifica con quella del linguaggio in quanto congiunzione, scrive Dòdaro, infatti, il linguaggio è una congiunzione, nell’ottica di un ritorno all’unità primigenia, di una condizione che pone l'uomo stesso come mancanza e linguaggio del lutto verso un continuo tendersi all'alterità, a lungo scavata, cercata, rintracciata da Dòdaro nell'origine del linguaggio nell'ottica di una rifondazione dell'anthropos che, oggi, oggettivato nello scambio monetario del desiderio (Simmel) s'interseca in una condizione produttiva alienante (Marx) per cui la salvaguardia del sé distrugge la condizione umana dell'alterità, dell'interrelazione sociale.

Francesco Aprile
2012-02-24

Da Il Paese Nuovo, 2012-02-28
e www.salentoinlinea.it, 2012-02-28

giovedì 23 febbraio 2012

Zum Umsteigen. L'invito al cambiamento

Massimo Zamboni, Il mio primo dopoguerra, Mondadori, Milano 2005

«Piante e animali sono condannati alla vita. L'uomo, è condannato alla storia. E trascina gli altri sistemi con sé, in un mondo politico. Ma c'è una cosa che abbiamo dovuto apprendere: la storia, non solo non è maestra della vita; non è neanche bidella.»
È scritto nell'apertura di "Il mio primo dopoguerra. Cronache sulle macerie: Berlino Ovest, Beirut, Mostar" di Massimo Zamboni, musicista compositore di CCCP e CSI, edito da Mondadori nel maggio del 2005.
È scritto così ed è tutto un percorrere le pagine salienti della storia e, a tratti, sovvertirla. Si registra il background culturale, ma anche sociologico, che ha caratterizzato e caratterizza tutt'ora Massimo Zamboni nell'arco della sua carriera. Il percorso che affronta l'autore fra le pagine del libro è quello che attraverso un'apparente distruzione della storia, mira a rileggerla in un modo più adatto alla memoria stessa, una memoria che rifugge stereotipi odierni che puntano dritto all'odio, ma che, invece, riconosce l'atto storico e lo modella sulle onde della consapevolezza per poter attuare un'adeguata solidarietà per un vero riconoscimento dell'altro.
Per Benedetto Croce si partiva dal fatto che tutto è storia, elaborando una teoria per cui la filosofia altro non poteva essere che una metodologia della storiografia, individuando le radici della storia europea non nel mito fondante della grecità, bensì in quello sviluppo europeo considerato come diverso ed articolato in virtù di una capacità di costruzione obiettiva del mondo dello spirito.
Ora, Massimo Zamboni si è già detto che punta al sovvertimento della storia fra le pagine del suo libro intendendola come uno svolgimento a ritroso, parte dall'immagine dialettica di Walter Benjamin per andare in soccorso del tempo e della storia stessi. E manipolando la visione del filosofo tedesco, secondo cui «nel presente il tempo è un equilibrio ed è giunto ad un arresto», ovvero nel presente la storia si costruisce guardando al futuro, partendo dalle esigenze dell'attualità, assumendo una propria leggibilità in una determinata epoca a partire da una serie di immagini dialettiche, immagini improvvise nelle quali convergono passato e futuro - cioè si illuminano - a partire dal presente. Nell'immagine ciò che è stato si unisce all'ora ed il luogo in cui si incontrano queste immagini è il linguaggio. Per questo motivo Zamboni, che conosce le potenzialità del linguaggio, attualizza le sue immagini inverse nella parola scritta ed in quella possibilità per cui non sia necessario che il passato e l'ora si incontrino per generare il futuro, ma, al contrario, il futuro e l'ora si incontrino per giungere consapevolmente al passato, eliminando le scorie dell'odio insite nella memoria e preparando il campo al pieno riconoscimento dell'altro. Scrive, infatti che «La storia, si potrebbe concepirla a ritroso? Da oggi all'indietro, sempre più indietro, a datarsi lontano procedendo come salmoni contro corrente lungo i secoli che ci hanno generato, fino a un inconcepibile - imbarazzato - inizio. Là dove si innescano l'atto e il pensiero che consegnano l'uomo alla storia, detraendolo alla vita.»
La consapevolezza della quale parla l'autore è quella che è propria di una cognizione logica dei fatti e non solo di una storia come elenco, sulle corde di un ritmo scandito da "data-evento", ma è una storia che va assimilata e compresa in tutte le ragioni periferiche, anche, altrimenti si corre il rischio, che tutt'ora viviamo, di continui risentimenti e rivalse d'odio basate proprio sull'utilizzo storiografico della parola memoria. Ciò che occorrerebbe, una pura consapevolezza dell'esercizio storico in virtù delle differenze culturali fondanti l'Europa, in quell'idea di radice storica mutuata da Croce, viene meno e lascia spazio all'odio.
Scrive infatti che "Di-menticare (lasciare uscire dalla mente), s-cordare (lasciare uscire dal cuore) il male, tenere netti gli organi, intasati dalle sofferenze...l'oblio serve la vita, la lascia proseguire. Un esempio su tutti, perdonare il dolore del parto serve a garantire le nascite ulteriori degli uomini. Conservare, tenersi servi della memoria, serba intatti i germi primari delle divisioni, delle ragioni assopite, mugolanti, feroci in potenza. Mantiene ogni male esercitato o subìto per una espansione posteriore. La memoria, serve la storia. Che sia l'oblio un indifferenziato eterno, rinnovabile, aperto ai giudizi e gli usi arbitrati dalle succedenti epoche...la memoria è dedicata all'uomo. L'oblio al tempo."

Francesco Aprile
2010-09-06
Da Il Paese Nuovo

«La piazza si alza come una creatura viva, si solleva, vivace e bislacca. Umorale. Imprevedibile, quando. Nessuno potrebbe tramortirla o demoralizzarla a lungo, e sopravviverle. Nemmeno a adularla si sopravvive più di tanto, comunque. Lei possiede il carattere dei suoi cittadini, lo porta scritto ai fianchi, appartiene a quella civitas che le appartiene. Non sono i monumenti, che le distinguono l'umore; non le dimensioni edili, gli archi, le fontane, i palazzi, nemmeno le parate celebri. Semmai, una architettura in carne. Dovessi realizzare uno spot sul tema, il claim sarebbe: Piazza d'uomo. Non Duomo». [Massimo Zamboni, Il mio primo dopoguerra, p. 152]

Suono e poetica contemporanea

Il Simbolismo, de la musique avant tout chose. L’arte poetica di Verlaine. Il “caso” dell’ultimo Mallarmé. Il Manifesto, del Simbolismo, su Le Figaro nel 1886. «Al Simbolismo occorre uno stile archetipo e complesso: incontaminati vocaboli, un periodo architravato alternantesi a un periodo tentennante e onduloso, pleonasmi significativi, misteriose ellissi, anacoluto sospensivo, il tutto con ardita multiformità [...] Il “Ritmo”: la vecchia metrica ravvivata; un disordine sapientemente preordinato; la rima illucescente e martellata come uno scudo d’oro e di bronzo, accanto alla rima dalle ascose fluidità». (Moréas, J., Manifesto del Simbolismo, Le Figaro, 1886) Una poetica della sonorità in età moderna traccia la sua propria evoluzione a partire dalla seconda metà del 1800. Baudelaire e poi i simbolisti Verlaine e Mallarmé. Una poetica della musicalità. Scriveva Verlaine nell’arte poetica «De la musique avant tout chose» – dalla musica tutte le cose – e ritmava il tempo di una poesia sullo spartito soffuso dell’immagine visivo-sonora, appena tratteggiata. Il Simbolismo. Il rifiuto di una poetica sociale, del sociale. La musicalità. Da qui in poi il suono si affaccia prepotentemente nel mondo letterario moderno e contemporaneo. Nel 1887, un anno dopo la pubblicazione del Manifesto del Simbolismo, Edouard Dujardin pubblica, sui numeri della Revue Indépendante, Les Lauriers sont coupés, dando spazio alla tecnica dei flussi di coscienza, poi teorizzata dallo psicologo William James – fratello maggiore del romanziere Henry James – nei suoi Principles of Psychology (1890) in cui contestualizza il flusso libero del pensiero associandolo alla corrente fluviale. Simbolismo e teorizzazione dei flussi di coscienza, appartenenti allo stesso periodo storico, sono funzionali alla svolta sonoro-semantica del secolo ’900. L’ambiguità semantico-immaginifica propria della poesia Simbolista, mutuata dal forte carattere sensazionale della poetica di Charles Baudelaire – o dell’aggettivazione poetica, delle immagini dello choc, del lettore in stato d’allerta (Benjamin, W., Di alcuni motivi nella poesia di Baudelaire), del flaneur rivolto allo straniamento (o della folla barbarica di Allan Poe) – poi, il muro sonoro del Finnegans Wake di James Joyce, i flussi di coscienza, «il libro da leggere con l’orecchio» (Giorgio Melchiori), per cui la valenza semantica della parola cede e lascia il posto ad un approccio che si connota della polisemia, dell’ambiguità semantica di ogni parola che è più parole e si genera nello scorrere del suono, nel ritmo, nell’assenza di punteggiatura e nella parsimonia della stessa – come, anche, nel monologo di Molly Bloom, nel finale dell’Ulisse sempre di James Joyce – e quel procedere, di un contesto, alla distruzione della sintassi così come espressa fino a quel momento. Nel 1912, Filippo Tommaso Marinetti scriveva, nel Manifesto Tecnico della Letteratura Futurista, dell’abolizione dell’aggettivo (eliminazione del carattere immaginifico-sensazionale di una poetica da Baudelaire in poi), della libera associazione dei sostantivi, l’abolizione della punteggiatura, il ricorso al rumore. Il tutto si collega e crea e ricrea. In un percorso che sfocia via via in un minimalismo letterario Novecentesco, con il precedente storico delle cento pagine jamesiane – le short story di Henry James come apripista di una nozione di brevità nella letterarietà occidentale – in cui il carattere di ammodernamento del testo e delle sue modalità fruitive e d’interpretazione passa attraverso l’enumerazione del correlativo oggettivo di T. S. Eliot (1919), la poesia storica dei Canti Pisani di Ezra Pound che – già in precedenza (1922) – si era guadagnato la dedica di T. S. Eliot in The Wast Land di “al miglior fabbro” per l’ampiezza il coraggio e l’importanza degli interventi editoriali sul manoscritto eliotiano, l’analisi poetica tagliente, acida, a tratti crudele per una ricerca di visioni salvifiche mai realmente afferrate di Emanuel Carnevali, l’ibridazione dei sistemi della poiesi con lo strumento narrativo e viceversa e che, ancora, entrano in contatto con gli aspetti pittorici e teatrali, la rivoluzione beniana di un disfare il linguaggio, lungo un percorso di manipolazione tecnica del significante come annullamento del significato stesso. Sulla scia di quel concetto saussuriano secondo cui il discorso non poteva essere il soggetto parlante, per cui il suo disfare come manipolazione tecnica innestato sulla mancanza lacaniana, sulla non presenza. Come dello smantellamento della parola. Dada. Dada. Il ritorno all’infanzia. Purificare le parole del mondo. La ricerca dadaista di Hugo Ball che nel 1916 sfociò nella poesia “Karavane” «Jolifanto bambla o falli bambla/großiga m’pfa habla horem/egiga goramen/higo bloiko russula huju/hollaka hollala/anlogo bung/blago bung blago bung/bosso fataka/ü üü ü/schampa wulla wussa olobo/hej tatta gorem/eschige zunbada/wulubu ssubudu uluwu/ssubudu/tumba ba-umf/kusa gauma/ba – umf» composta con parole senza alcun significato andando in quella direzione di purificazione della parola, logora, consumata, svilita da ordini e informazioni di cui il quotidiano vivere rendeva necessaria la trasmissione. Sempre Ball fu apripista per quanto riguarda la poesia fonetica attraverso la poesia “Gadji beri bimba” composta da una serie di sillabe “accumulate” dal caso, quasi a mimare l’atto primitivo della parola, del suono, del bambino. Dagli anni ‘50 della prosodia beat, la narrazione poetica jazz, punteggiatura e parsimonia della stessa, la riverenza verso il suono (Adorno), la costruzione sintattica della poetica dei concretisti nel ritmo interno del verso, assonanze, consonanze, le sperimentazioni musicali degli anni ’70-’80, Glenn Branca, dissonance, il ripercuotersi sul testo contemporaneo. Tutto questo, il verso, il suono, il timbro, la sconsacrazione della parola, il suo disfacimento in virtù di composizioni di soli “suoni” in quel contesto che è proprio di una ricerca poetica che incanala la propria strada negli apici letterari degli anni ’60 – ’70 a cavallo del lirismo poetico-sonoro di Adriano Spatola; il suono, la pulsione amniotica del linguaggio rintracciata dal movimento di Arte Genetica di F. S. Dòdaro (fondato nel 1976) in quel suono primordiale, archetipo, che è il battito del cuore materno ascoltato in età fetale, simbolo dell’unità dispersa, della dualità dell’anima, e, per cui, risulta basato su quella causa primaria intesa come “manque à être” lacaniana, che è la mancanza come separazione del soggetto centrale dal «complemento materno» (Francesco Saverio Dòdaro, Codice Yem. Le origini del linguaggio, ovvero la rifondazione della coppia, in Ghen 25.6.79, giornale modulare a cura del movimento di Arte Genetica) l’origine dell’arte, di quell’arte, quella musicalità e quella separazione che sono al centro del gesto artistico. La nascita del linguaggio come processo di lutto, per la separazione dalla madre all’atto della nascita, della lacerazione mancanza separazione. Ancora, si pensi, successivamente, ai componimenti di “Sei per uno sei” di Enzo Minarelli, al loro suono per sottrazione sistematica dei termini che si susseguono in pura estasi sonora, per la procedurale eliminazione dei contenuti. Il suono è componente fondamentale nella ricerca letteraria del secolo ’900 innestato sull’apparato paratattico dello svolgimento del testo, il periodo breve, parola punto, estensioni concettuali dell’oggetto parola, della parola che torna ai primordi, dal gestualismo di Pollock, la paratassi – ancora – il periodo breve, come un sussulto a ritmare il testo ed il suo scorrere che si incontra con le ricerche letterarie successive, dagli anni ’70 in poi, e si condensa come espressione minimalista nel silenzio (John Cage, 4’33’’, 1952, Maverick Concert Hall di Woodstock, a NewYork) secondo quei concetti per cui anche la scrittura entra nel solco del concettuale, nell’intertesto, nell’estensione paratestuale della sua propria esistenza e si colloca, il ritmo, nella brevità del silenzio, nel paradosso della sua esistenza, nel periodo breve paratattico come musicalità spigolosa, ostica, ritmata tesa mozzafiato. Una poetica dei suoni e dei silenzi. Dissonance, riverberi, refrain, la condizione anaforica della parola ritmata sullo spartito sonoro del cuore. I rumori urbani e i malesseri interiori. La dignità sonora del rumore.

Francesco Aprile
2011/06/26

martedì 21 febbraio 2012

A tre deserti dall’ombra dell’ultimo sorriso meccanico

«Datemi un cerino vero, con fiamma viva / e fatemi giocare tra i castelli di carta, i sogni, i libri / il freddo non vi morderà la punta delle dita / non vi indicherà tra le nebbie il sentiero selvaggio del caos / né ghiaccerà il futuro davanti ai nasi schiacciati alla finestra»

Elio Coriano, H 4965, in A tre deserti dall’ombra dell’ultimo sorriso meccanico

da Il Paese Nuovo, 2012-02-10

La poetica di Elio Coriano ha le fattezze di un tempo indeterminato perché è nelle parole dell’inconscio che, l’autore, ha forgiato trame e vissuti quotidiani, una dialettica poetica che scolpito il tempo ne ha fatto dimensione diversa, immutata, coordinata dalle parole che riallacciano l’uomo a dimensioni che oggi sembrano dimenticate. È un percorso poetico che ufficialmente inizia nel 1995, anno dell’esordio letterario dell’autore che inaugurò, con A tre deserti dall’ombra dell’ultimo sorriso meccanico, la collana Internet Poetry, fondata e diretta da Francesco Saverio Dòdaro per Conte Editore – la prima collana di poesia telematica. Lo stesso testo, un titolo a carte sciolte, strutturate come cartoline nel formato 12×21, è risultato vincitore del Premio Venezia Poesia nel 1996. Nel testo introduttivo Francesco Saverio Dòdaro parla, non a torto, di «dodici punti di rilevamento [...] dodici isoglosse» ché s’intersecano nell’atto della lettura e delimitano uno spartito unico di consonanze amniotiche che, primordiali, battono il tempo come un tamburo pulsa sulla metrica del cuore, e si riempie il respiro delle vastità naturali che s’aprono nello sguardo e l’animo umano. C’è questo tempo indeterminato, perché non catalogabile, senza dimensioni di sorta, né temporali né spaziali, dove le coordinate metriche scorgono dimensioni, di cui dicevo in apertura, che, sì, sembrano dimenticate, ma albergano distratte nell’implicita anatomia sensibile dell’uomo, nello spaccato inconscio che è il viaggio unico, il filo conduttore che dall’origine accompagna genti diverse, è nell’origine del ciò che è stato hegeliano, nel Wesen ist was gewesen ist, che si realizza la condizione ottimale in cui si esplicitano i versi di Coriano. E scrive ancora Dòdaro «Dodici isoglosse. Del dolore universale: il neumanniano Weltschmerz [...] Dodici isoglosse. Del frammento, prima di Platone, poi di Freud, Lacan, Kristeva» perché del dolore Coriano ha fatto mezzo per forgiare il tempo, è nel dolore universale che, sul bilico dell’annullamento psico-poietico, il verso si genera e condensa le sue energie lungo un tracciato che sa leggere la vastità esperienziale dell’origine comune, come una danza di tempi lontani in cui alti tamburi a fessura issati come totem innalzavano la sacralità dell’uomo nel richiamo totale e fertile dispensatore delle nostre tenere lacerazioni, di nascite di umori di lontananze e comunioni «nella misteriosa foresta, tra i lupi con le ali, gli angeli / cornuti / e la musica dei corpi suonati come flauti» [Coriano, E., H 4169] irrompe una poetica tesa, che gestisce la spazialità della pagina memore del Caso e del colpo di dadi dell’ultimo Mallarmé, lacera il testo – dalla sua accezione accademica – nell’assenza della punteggiatura, quasi a segnare un tragitto di nascita, come se ogni singolo haiku fosse un corpo a se stante che, in quanto linguaggio, è generazione continua di una ricerca che nel verso libero della natura s’erge a costruzione poietica della dimensione umana. «Una solitudine viva come una folla impazzita» [Coriano, E., H 4839] – perché è nella folla la solitudine estasiata della ripetizione, nello straniamento collettivo dell’urtarsi dell’uomo-numero – che «Mentre la coscienza con corpo di donna si feriva i polsi offrendosi ai lupi» [Coriano, E., H 4839] la vita poetica di Coriano è manifestazione di un recupero del respiro, del verso che non si sottrae al ritmo e nel ritmo si genera da sé come, ancora, elemento unico, a se stante, che s’innalza in danze divinatorie che albeggiano di uomo in uomo, di linguaggio in linguaggio, corrispondendo le parole all’alba di un continuo “ciò che è stato”.

Francesco Aprile
2012-02-08

_e nudi corpi


Poetic Algorithm (L'estetica dell'algoritmo segnico)

- Francesco Aprile, Poetic Algorithm (L'estetica dell'algoritmo segnico), in Diversalità Poetiche (Literary sheet directed by Francesco Pasca), Lecce, October 2011

Techno poetry. Poesie tecnologiche. Elettroniche. Poesie informatiche. Schede perforate. Algoritmi poetici_ narrazioni e visualizzazioni poetiche trasposte nel linguaggio informatico per il suo rovesciamento. Il tracciato poetico che contamina quello logico-informatico, ne astrae la struttura, le sensazioni, gli scopi. Un tentativo di ribaltarne usi e consuetudini. Il dominio poietico sulla tecnica, modellata alle scansioni interiori dell’anima, dello spazio attorno. Uscire fuori dalle coordinate dell’arte generativa. Scardinare il software generativo che compone, crea_ programmato sulle dinamiche creative dell’artista. Assumerne le potenzialità logico-scritturali e ribaltarne i sensi, le dinamiche. Accarezzarne le ossessioni. Fare pratica scritturale dell’esperienza sintattica, linguistica, esecutiva di una scrittura informatico-elettronica che soggiace, questa, alle dinamiche procedurali del pensiero umano e catalizzarne l’attenzione sul centro poietico dell’esistenza umana, allentando la presa della tecnica. Non il software. Non la programmazione_ ma l’oggetto di una pratica scritturale che si avvale dei sistemi elettronico-informatici del vivere quotidiano e li realizza nel loro capovolgimento. Assumere a coordinate sintattiche strutturazioni tipiche del linguaggio elettronico-informatico, mutuate da analisi linguistiche della prassi quotidiana del pensiero umano, attraverso pratiche di elaborazione tecnologica di una prassi analitica propria dell’uomo, per cui ci dice Chomsky «è naturale postulare che l’idea delle operazioni dipendenti dalla struttura faccia parte dell’innato schematismo applicato dalla mente ai dati dell’esperienza. [...] Sembra del tutto ragionevole avanzare l’idea che le strutture ignote del cervello che forniscono la conoscenza del linguaggio sulla base dei pochi dati che abbiamo a disposizione, ‘possiedono al loro interno‘ l’idea delle operazioni dipendenti dalla struttura» e ancora «Così in un senso molto importante le regole sono dipendenti dalla struttura» avviene così che la slogatura di un linguaggio strutturale, codificato a partire dalla logica algoritmica delle istruzioni (che nell’approccio informatico ripuliscono l’espressione linguistica-sintattica da ridondanze, ambivalenze, polisemie, rastrellando l’espressione al mero concetto, per una pulizia dell’istruzione che la rende conforme all’analitica successione e scansione di pensieri che l’uomo compie lungo il tragitto di una semplice azione, come, ad esempio, attraversare un corridoio ed aggirare un tavolo, azioni che, dunque, nella mente si figurano come successione di istruzioni), torni imbevuta d’ambiguità e polisemia poietica, in un tuffo che è proprio di una pratica scritturale, come già detto in precedenza, che assume a modalità quotidiana d’esecuzione lo sforzo strutturale di una logica informatica (derivata dall’analitica delle “strutture ignote del cervello”) e se ne libera invischiando, all’interno di questa pratica, elementi che trascendono lo schematismo dell’istruzione e si fanno fulcro di un ribaltamento poietico della tecnica quotidiana, in virtù di un rovesciamento dell’immaginazione ai danni di una via procedurale, di una prassi scientifica che è dimentica di quell’aspetto soggettivo, interpersonale, relazionale, dal quale muove i passi, nell’elemento distintivo che Karl Otto Apel individua in quella comunità scientifica che, attraverso le relazioni interpersonali e comunicazionali soggettive, è alla base della razionalità scientifica, per cui un passaggio obbligato attraverso una rete relazionale soggettiva ed il rapporto etico delle mescolanze umane. L’incedere poetico che si esplicita nella dichiarazione dei commenti al margine interno della dichiarazione algoritmica, l’introduzione di elementi costituiti da quel loro realizzarsi in una pratica irrazionale soggetta alle dinamiche della carne dell’uomo, derivate dal rapporto “uomo-mondo” (Camus) e da quella componente di “inadattabilità” che ne consegue (Ortega Y Gasset) svincolano le pratiche della scienza dalle dinamiche dell’evoluzione della fredda tecnica, ancorandole a dinamiche proprie dell’agire quotidiano dell’uomo, restituite alla poiesi lungo un percorso di erraticità senza tregua.

Francesco Aprile
2011-08-25

La pittura di Salvatore Masciullo

Mostra di Salvatore Masciullo presso la A&A gallery di Galatina (LE). La mostra rimarrà aperta presso la galleria fino a domenica 11 marzo dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.30 alle 20.00.





Immagini per forza

Presentazione del libro di Emiliano Colasanti, “UN MONDO DEL TUTTO DIFFERENTE” LA STORIA DI WOW E DEI VERDENA

Personale di Luca Ferrari
dipinti, collages e proiezioni

Mercoledì 14 Marzo
@ Bloom Via Eugenio Curiel, 39 Mezzago Monza e Brianza ore 21:00


Una storia del tutto differente è un libro tutt'altro che tradizionale in cui, in perfetto stile Verdena, le immagini, gli appunti e i disegni si fondono col testo dando vita a un‘insieme organico e al tempo stesso volutamente poco lineare.

EMILIANO COLASANTI
Giornalista musicale e conduttore radiofonico, collabora abitualmente con «Rolling Stone» e cura per «GQ.com» il blog musicale Stereogram (http://stereogram.gqitalia.it). Ha fondato e gestisce l’etichetta discografica indipendente 42Records.

LUCA FERRARI
Luca Ferrari non è solo il batterista dei Verdena: del gruppo è anche l’ideatore di immaginari. La sua è un’estetica zoppa: immagini buffe e sporche, bizzarrie stranamente evocative. Se nel 2001 prestava il soggetto di una sua tela per la copertina di “Spaceman ep”, per il tour de “Il Suicidio dei Samurai” iniziava ad ideare le prime grafiche per t-shirt con aforismi e visioni “nonsense”. Negli ultimi anni ha rempito il booklet di “Requiem” come un puzzle psichedelico e grottesco e con i suoi disegni e giochi di parole ha trasformato il sito internet della band in un gioco matto interattivo. Poi è arrivata la copertina di “Radar (Ejabbabbaje)” e ancora grafiche per t-shirt, poster e guazzabugli. Da un decennio ormai Luca accompagna il gruppo “dietro le quinte” con le sue fantasie figurative. In occasione della presentazione del libro di Emiliano Colasanti, per la prima volta e per una sera soltanto, verranno esposte “Immagini per forza”: proiezioni video, acrilici e collages su tela, carta o compensato, realizzati da Luca dal 2001 ad oggi. Un’occasione in più per approfondire la conoscenza del mondo Verdena per i fans, e un curioso punto di vista figurativo da scoprire per tutti gli amanti di pittura.

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