"secondo una certa critica i suoi lavori sono, cito testualmente,
linee aggrovigliate, disintegrazione catartica, caos, che cosa ribatte?" -
"se la gente lasciasse i preconcetti a casa e guardasse i miei quadri non
credo che avrebbe difficoltà ad apprezzarli. è come guardare un prato fiorito,
non ci si strappa i capelli per capire cosa significa." - "come fa a
capire quando ha finito un lavoro?" - "come si capisce quando hai
finito di fare l'amore?". (ed harris, in Pollock)
credo che un giardino di sole rose
vada bene per cominciare, come uno scenario cinematografico dove perdersi non
sapere mai dove guardare. non datemi dell'altro, non datemi mai, dell'altro,
solo il rumore della sua voce. ha bevuto una dozzina di cicchetti prima di
scendere sulla scena dello spettacolo come se fosse un crimine già
addomesticato da rituali televisivi e dimenticare tutte le battute come una
rissa iniziata male e finita peggio. non ha tutti i torti quando si ubriaca e
non perde tempo nel dire cazzate. non ha tutti i torti ma quella volta sulla
scena era inciampato prima di tutto in se stesso dimostrando un disordine umano
quasi come fosse una carezza sul ventre di una donna incinta.
tenerezza insomma. si lanciò contro il pubblico colpevole di non avere capito
l'intimità della scena da lui dimentica e riadattata alla meno peggio con un
rantolo di vomito che gli si premeva contro la gola sabotandone tutte le parole
sballottolate da una parte all'altra come un gomitolo preso a zampate da un
gatto che si basta a se stesso nel suo mai timido giocare. urlava contro il
pubblico di non essere e volerlo mai diventare una parte segmentata di loro
come in un giardino di sole rose rosse e spine unte dal loro stesso senso netto
di distanze e ambre nude colate giù dal cielo come pioggia dopo la pioggia.
sbaglierò - recitava nel suo incipit maldestro al punto da esserne così
convinto da non distinguersi da niente di tutto quello che colava fuori dal suo
corpo - ma siamo immortali, credo, nelle parole che già abbiamo consumato,
dilapidato come un discorso seminudo di irrefrenabile baldoria, in quelle frasi
fatte, già pronunciate da troppe, troppe persone. in quelle parole che si
addentrano e mordono la fuga, il ritorno, il serpe calpestato per strada, una
pietra scheggiata. sai che posso esserci anche quando non ci sono. io, non ti
ho conosciuta mai. sono così nudo che mi piace arrossarmi il viso con queste
bottiglie di vino che rubo al mercato, quello in piazza dove da ragazzi
andavamo solo a rubare, a raccogliere qualcosa che non fosse mai stata pagata,
a perderci a perderci a scriverci le nostre stupide parole sui muri sui muri
sui muri per non raccontarci niente con quelle stupide parole. sbaglierò, ma
siamo immortali in tutto questo. in quelle parole uccise dal nostro non pesarle
mai. in quelle frasi fatte. in quella routine verbale da mercato in piazza a
urlare urlare cantare squarciarci il ventre dissodato con una mannaia
letteraria di un libro troppo troppo grande da poter essere letto senza muover
sbadiglio. io, non ti ho conosciuta mai.
io,
non ti ho conosciuta mai. lo sai che quando siamo all'aria aperta amo perdermi
mentre i tuoi discorsi mi sorseggiano come fossi un bicchiere di vino andato a
male, perché mal digerisci questo mio stato, questa mia condizione dove non
sono altro che una famiglia adottante di parole a buon mercato, dove non sono
altro che tutta la mia noncuranza ai dettagli, ai dettagli asserragliati dietro
l'angolo come studenti nel maggio della rivoluzione. amami. amami come non hai
mai amato niente all'infuori di questa nostra solitudine. amami. amami come non
hai mai disprezzato che io fossi e invece non ero. amami. amami come quei
vent'anni che hai dimenticato mentre già li stavi vivendo. amami. amami e
dimenticami come quei vent'anni che stavi vivendo e hai scordato di vivere.
come la rosa rossa che s'è uccisa in un castello di nuvole dove sola ti
specchiavi. come la rosa rossa che spina spinosa s'attorciglia al collo
s'aggrappa in groppa alla testa alla cresta all'onda che s'abbatte e poi non
s'arresta torna e si scontra e schiva, mai serva asservita mi rintrona
conquista come su quel castello di nuvole pochi pesci azzannati alla riva hanno
scritto ultime parole che già cancellate dall'onda che torna e la sabbia
scontorna scancella, io. non ti ho conosciuta mai. non sono che uno spaccato
timido della solitudine. non sono che una rimembranza adolescenziale dei disagi
che lenti mi plagiano. non sono che la tortura che dai tuoi occhi mi sovviene.
amo la stortura della sera che viene a stringermi il collo con un fazzoletto
bianco di stelle.
tutto qui. ha disarcionato
l'idea, lo spasmo. ha centrifugato il ritmo il ritmo. il ritmo che tanto ha
aspettato prima di venire a galla. ha annaspato, una volta ucciso il ritmo. nel
senso inverso dell'alcool che dal corpo aveva fretta d'uscire. era ubriaco
sulla scena. ma cantava una lingua diversa. ho assaporato posti lontani e mai
reali nelle parole scansionate da quella voce. ho rivissuto momenti mai nati
nell'esperienza della mia vita e di quelle precedenti. sono sempre stato un
monaco buddista taoista zen senza mai credere nei cicli delle vite delle nascite rinascite
uomo animale uomo stella mare piuma cielo incanto infinito. la vista è sempre
stata qualcosa che mi si strozzava negli occhi accigliati aggrottati sorridenti
spenti. un giardino di sole rose sì. poteva andar bene per cominciare. poi
occorreva il resto. uno spazio ampio. un albero con una grossa cavità. un
dondolo. di quelli stereotipati con la solita gomma d'automobile ondulante
nell'aria vuota. e nessuna corda per appenderla. un giardino di sole rose
poteva andar bene per cominciare. poi. ancora. uno spazio ampio. un albero con
una grossa cavità. un paio di vocali slegate dal discorso e poggiate a caso
nello spazio aperto dell'albero. un calendario, che non conta più i giorni, su
cui segnare lo spazio ampio dove aspettarci, incontrarci ogni volta, tutte le
volte per dimenticarci.
francesco aprile
febbraio 2012
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