Franco Arminio, poeta-paesologo ospite del Fondo Verri di Lecce nella
serata di sabato 26 maggio 2012
I libri spesso sono una sconfitta per chi li scrive. Chi pensa di
aver aggiunto qualcosa è un illuso. I libri migliori non aggiungono
nulla, solo in pochi casi miracolosi sottraggono qualcosa al mondo e il
mondo più tardi se ne accorge.
(Terracarne, Mondadori, Milano 2011, Nota Finale)
Portare l’attenzione sulla
sofferenza, sul dolore, distogliere lo sguardo da ciò che oggi ci ricopre,
spezzare la maschera attoriale per non sopprimerci, da noi, nel gioco di una
rappresentazione sociale che astrae, distrae, scuce e distrugge. Oggi, le cose
ci scivolano addosso, quelle delle nostre necessità che scartiamo via come
prodotti ormai scaduti, per rifugiarci nel comfort sempre troppo facile
dell’apparenza frivola. È l’attenzione
che Franco Arminio, poeta-paesologo ospite del Fondo Verri di Lecce nella
serata di sabato 26 maggio, chiede e crea, porta sulla scena di una
rappresentazione che mossa nella tessitura del dialogo comune, del confronto,
si muove, s’agita, esce dai canoni dell’uso quotidiano del linguaggio per
affrancarsi, per concimarsi alle necessità che oggi via via si perdono. Cerca
la parola comunità, Arminio, e la ricerca nella continua tessitura,
accompagnato nel dialogo da Mauro Marino che del Fondo Verri, assieme a Piero
Rapanà, ha fatto negli anni spazio di confronto e apertura costante. Ci sono
versi in calce che sanno ascoltare l’aria come un volo di rondine apre ali e
libera pensiero. Quello di Arminio è un dialogo costante, intenso, con la
parola che non è mai slegata da un contesto, avulsa, contorta o svuotata di
senso, ma, anzi, è nel contesto che si crea e alimenta la fiamma dell’impegno,
perché è impegno la poesia; ha da raccontare un vissuto quotidiano che sposta
l’occhio dalle grandi narrazioni e si concentra sul vivere, su quelle necessità
che per forza di cose guardano in faccia le sofferenze, il dolore, la morte e
da queste si rafforzano, sanno crescere e mescere spartiti diversi, lontananze
che nella necessità, appunto, sanno ritrovarsi come vicine; perché è in ciò che
è comune agli uomini che la vita muove, e ciò che è comune è agli uomini
universale. Dice d’aver iniziato ad entrare in Lecce e la sua realtà soltanto
ora, dopo esserci già stato due o tre volte prima d’oggi. Prima, dice, la città
gli era scivolata addosso, ne aveva visto il barocco, i monumenti, ma gli era
scivolata addosso, perché di un luogo bisogna sentirne il respiro, il passo,
l’incedere quotidiano dell’uomo e della natura dei posti. Ha capito che come
molti Sud c’è qualcosa che tende a trascinare tutto con sé, verso il basso,
verso la mortificazione delle risorse, della creatività che s’affanna a vivere
dove la visione politica è troppo spesso accorta a soluzioni proprie di un
modernismo improvvisato. Ma c’è qualcosa che nelle sue parole mi riporta alla
mente altre parole, altri impegni, altre dimensioni. Lo ascolto, ne leggo le
parole, lo spazio che occupa la morte e la dimensione del dolore, la
possibilità di esserci e progredire nella sofferenza e nelle piccole cose, nel
quotidiano, nell’aprirsi ad una dimensione propriamente umana che possa designare,
anche, una vita migliore, a dimensioni etiche che liberano l’uomo dal timore
che, accompagnato da tutto un sistema di sovrastrutture, lo porta a scartare,
ad allontanarsi dal fare i conti con l’inevitabile corso della vita per
rifugiarsi nella pallida, ma semplice e fugace, coperta della rappresentazione
di un linguaggio-uomo-feticcio. E penso che sia nella necessità del tornare ad
essere uomini che ascoltano lo spazio che li circonda, che se ne nutrono, e
questo traducono in esperienza di vita, che si realizza l’universalità-comune
della pratica poetica di Arminio, che in quel suo affrontare il dolore, per
sempre continuare a costruire, mi sembra vicino ad altre parole, altre
dimensioni, altri impegni che in questi posti al sud hanno imbastito parole sulle
necessità quotidiane. Penso a Salvatore Toma, al nome da scrivere su una croce
per uscire “per strada a guardare la gente con occhi diversi”, penso a quel
tuffo che in quelle parole si compie con in faccia la crudezza di un approccio
che senza mezzi termini apre l’uomo al mondo, restituendolo alla sua
appartenenza. Trovo questo in Arminio, un tornare dell’uomo al mondo, ad
appartenere ad esso, esser parte dell’esistenza, per non giocare ancora a
trarre in ostaggio il mondo e violentarlo con l’ineffabile dei nostri bisogni
da messinscena televisiva.
Francesco Aprile
2012-05-27